L’esito delle elezioni politiche di aprile e l’insediamento del Governo Prodi hanno suscitato presso la maggioranza degli italiani una forte aspettativa di rilancio dell’economia e di ridefinizione degli indirizzi di politica economica a fini di equità e di coesione sociale.
A questo scopo si rendono indispensabili provvedimenti coraggiosi ed incisivi: un programma di legislatura che preveda ampi investimenti nel sistema delle infrastrutture materiali e immateriali, nell’istruzione, nella formazione e nella ricerca scientifica e tecnologica; un indirizzo di politica industriale che spinga il nostro tessuto produttivo verso un modello di sviluppo fondato sulle nuove tecnologie, e che risulti equilibrato sul piano ambientale e territoriale; una diversa disciplina del mercato del lavoro e delle relazioni industriali che ripristini le condizioni per la crescita dei salari reali, per il superamento di una logica produttiva fondata sulla precarietà del lavoro, per il rafforzamento degli ammortizzatori sociali e più in generale degli strumenti di welfare.
Si tratta di interventi necessari, inderogabili, per il cui perseguimento occorrono impegno e risorse.
La nostra preoccupazione è che il Governo si stia orientando verso una politica generale delle finanze pubbliche che precluderebbe ogni possibilità di fornire risposta alle reali esigenze del Paese. Dal Documento di programmazione economica e finanziaria sembra infatti emergere una pesante manovra di finanza pubblica volta a realizzare un rapido abbattimento del rapporto tra debito pubblico e Pil. Il perseguimento di un simile obiettivo richiederebbe l’accumulo di avanzi primari annuali estremamente ampi. Ciò implicherebbe tagli significativi alla spesa pubblica, incrementi del prelievo fiscale non reimpiegabili nell’economia e, presumibilmente, ulteriori dismissioni e privatizzazioni.
Se questo tipo di orientamento prevalesse gli effetti sul sistema economico e sociale potrebbero rivelarsi deleteri. Da un lato, si avrebbe una ulteriore compressione della domanda aggregata e quindi dei livelli di attività economica, con riflessi negativi sullo stesso bilancio pubblico. Dall’altro, si rinuncerebbe ad impiegare risorse reali e finanziarie in politiche strutturali utili al rilancio e allo sviluppo economico-sociale.
Ci preme mettere in luce che questa strada non è per nulla obbligata. Non sussistono, infatti, né vincoli istituzionali né imperativi tecnico-economici che impongano un abbattimento del debito.
In primo luogo, l’unificazione monetaria europea e la presenza di un mercato finanziario integrato hanno fortemente ridimensionato i differenziali tra i tassi d’interesse dei paesi membri, e non sussiste alcun motivo tecnicamente plausibile per attendersi incrementi significativi e duraturi di tali differenziali. Qualsiasi riferimento ad eventuali reazioni avverse da parte dei mercati andrebbe pertanto seriamente argomentato sul piano tecnico-scientifico, anziché essere semplicisticamente evocato.
In secondo luogo, l’analisi economica mostra che non esiste un’unica definizione plausibile di sostenibilità delle finanze pubbliche: per ogni data differenza tra i tassi d’interesse e i tassi di crescita del reddito, esistono molteplici combinazioni possibili del deficit e del debito, tutte sostenibili sul piano della stretta logica economica. Questo significa che i vincoli del deficit al 3% e del debito al 60% del Pil, sanciti dal Trattato dell’Unione, non godono in quanto tali di alcuna legittimazione scientifica. Nulla impedisce, pertanto, che essi vengano sottoposti ad una nuova e diversa valutazione in sede politica, nazionale ed europea. A questo riguardo, è opportuno ricordare che il Trattato dell’Unione non prevede sanzioni rispetto al vincolo del debito pubblico al 60%, e che le sanzioni previste per i paesi il cui deficit superasse il limite del 3% non sono finora mai state applicate, nonostante le significative e ripetute violazioni.
Non vi sono dunque ragioni valide per imporre al Paese un’azione di drastico abbattimento del debito; il nostro sistema economico attende piuttosto una ripresa responsabile, razionale, innovatrice, dell’intervento pubblico nell’economia.
A questo scopo, noi proponiamo che il Governo fissi come obiettivo generale di legislatura non l’abbattimento ma la sola stabilizzazione del debito rispetto al Pil, determinando conseguentemente il valore del rapporto tra deficit e Pil.
L’eventuale esigenza di ulteriori riduzioni del rapporto tra deficit e Pil – da verificare nelle sedi del Parlamento nazionale, della Commissione e del Consiglio europeo – andrebbe comunque esaminata tenendo conto della mancata applicazione di sanzioni nei confronti di quei paesi membri che negli anni passati presentavano “disavanzi eccessivi”. Inoltre, più in generale, qualsiasi intervento sul disavanzo andrebbe valutato alla luce della necessità di muoversi sempre ed esclusivamente in termini anti-ciclici rispetto all’andamento dell’economia e di sostenere più elevati sentieri di sviluppo del reddito e dell’occupazione.
Sono queste, riteniamo, le opzioni di finanza pubblica che nella presente situazione risultano compatibili con i fondamentali obiettivi di sviluppo economico del Paese e di rispetto dei più elementari principi di equità e di giustizia sociale.
Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), Bruno Bosco (Università di Milano Bicocca), Emiliano Brancaccio (Università del Sannio), Roberto Ciccone (Università di Roma Tre), Nicola Acocella (Università di Roma “La Sapienza”), Enrico Bellino (Università Cattolica di Milano), Mario Biagioli (Università di Parma), Paolo Bosi (Università di Modena e Reggio Emilia), Luigi Cavallaro (editorialista), Valerio Cerretano (Libera Università di Bolzano), Sergio Cesaratto (Università di Siena), Guglielmo Chiodi (Università di Roma “La Sapienza”), Francesca Corrado (Università di Modena e Reggio Emilia), Carmela D’Apice (Università di Roma Tre), Giancarlo de Vivo (Università di Napoli “Federico II”), Marianna Epicoco (Università di Milano), Sergio Ferrari (ENEA), Stefano Figuera (Università di Catania), Massimo Florio (Università di Milano), Giuseppe Fontana (Università del Sannio), Guglielmo Forges Davanzati (Università di Lecce), Andrea Fumagalli (Università di Pavia), Pierangelo Garegnani (Università di Roma Tre), Giorgio Gattei (Università di Bologna), Augusto Graziani (Università di Roma “La Sapienza”), Bruno Jossa (Università di Napoli “Federico II”), Sergio Levrero (Università di Roma Tre), Stefano Lucarelli (Università Politecnica delle Marche), Gerardo Marletto (Università di Sassari), Giovanni Mazzetti (Università della Calabria), Franca Meloni (Università di Napoli “Federico II”), Luca Michelini (Università LUM), Guido Ortona (Università del Piemonte Orientale), Antonella Palumbo (Università di Roma Tre), Marco Passarella (Università di Firenze), Sergio Parrinello (Università di Roma “La Sapienza”), Fabio Petri (Università di Siena), Antonella Picchio (Università di Modena e Reggio Emilia), Marco Piccioni (Università di Napoli “Federico II”), Francesco Pingue (Università di Napoli “Federico II”), Massimo Pivetti (Università di Roma “La Sapienza”), Felice Roberto Pizzuti (Università di Roma “La Sapienza”), Fabio Ravagnani (Università di Roma “La Sapienza”), Roberto Romano (Ufficio Studi Cgil), Eleonora Sanfilippo (Università di Roma “La Sapienza”), Alessandro Santoro (Università di Milano Bicocca), Francesco Scacciati (Università di Torino), Ernesto Screpanti (Università di Siena), Antonella Stirati (Università di Roma Tre), Francesca Stroffolini (Università di Napoli “Federico II”), Cristina Tajani (Università di Milano), Mario Tiberi (Università di Roma “La Sapienza”), Guido Tortorella Esposito (Università del Sannio), Attilio Trezzini (Università di Roma Tre), Adelino Zanini (Università Politecnica delle Marche)