Apologia del deficit

No ad una politica di lacrime e sangue per ridurre il deficit statale, scrive Riccardo Realfonso sul manifesto (3 gennaio). E gli fa eco Alessandro Santoro, dimostrando che la storica parola d’ordine della sinistra – «lotta all’evasione fiscale» – in sé giusta, non può neppure lontanamente sostenere i fautori del «risanamento ad ogni costo». «Non sono d’accordo», replica Marcello Messori intervistato da Andruccioli. (24 gennaio) Poiché concordo con Realfonzo e Santoro, cercherò di integrare le loro osservazioni con ulteriori considerazioni che, pur con qualche differenza, sostengono i loro suggerimenti. Perché è economicamente sbagliato cercare oggi di ottenere un avanzo di bilancio da parte della pubblica amministrazione, sia pure per ripianare il debito accumulato? Perché gli articoli del Trattato di Maastricht su deficit e su debito pubblico, e sul rapporto tra Banca Centrale e Governi rappresentano un nonsenso economico? Per rispondere bisogna rispolverare un po’ di storia economica. E’ noto che fino a metà Novecento l’orientamento prevalente fu quello di osteggiare qualsiasi spesa pubblica che non riguardasse le tre funzioni essenziali dello stato di natura extraeconomica: difesa, giustizia e ordine pubblico. Integrato dalla convinzione che la pubblica amministrazione dovesse puntare a coprire sempre ogni spesa con entrate dello stesso ammontare (principio dell’equilibrio di bilancio).

I paesi che seguirono con maggior costanza questo comportamento furono condannati, nel periodo tra le due guerre mondiali, ad un lunghissimo ristagno economico e alla disoccupazione di massa. Per questo dopo la Seconda guerra mondiale intervenne una «rottura» nelle politiche economiche di quasi tutti i paesi, che si può riassumere con le parole di Lord Beveridge: le decisioni di spesa «avrebbero dovuto essere formulate non in riferimento al denaro disponibile, bensì in riferimento alla forza lavoro disponibile». Vale a dire che «lo stato doveva essere disposto a spendere, se necessario, più di quello che sottraeva ai cittadini attraverso la tassazione». Ma come veniva giustificato questo rovesciamento di approccio? La teoria può essere riassunta nei seguenti termini: a causa dell’enorme crescita del capitale produttivo, gli imprenditori si trovavano con una difficoltà strutturale di vendita; data la deflazione che ne conseguiva, in molti fallivano e i restanti non tornavano ad effettuare gli investimenti necessari per stimolare il sistema economico.

Le spese corrispondenti venivano dunque a mancare. Ma là dove domina la produzione di merci, la spesa è l’atto sociale attraverso il quale la forza lavoro e le risorse disponibili riescono a tornare in circolo. Da qui il grave impoverimento di cui la società veniva a soffrire. Ora, se lo stato si sostituiva agli imprenditori come soggetto della spesa, avrebbe potuto far tornare in circolo quella forza lavoro e quelle risorse che altrimenti sarebbero andate sprecate. Questa teoria divenne, per quasi un trentennio, la struttura portante della cultura dominante, e l’incidenza della spesa pubblica sulla produzione del reddito nazionale crebbe enormemente sia in termini assoluti, sia in termini relativi. E’ l’epoca dei cosiddetti «miracoli economici».

Perché studiosi che si trovano da sempre su posizioni politicamente progressiste, come Messori, possono oggi invocare il rispetto di un “vincolo” dei conti pubblici, che va contro le prospettive indicate da Beveridge? A mio avviso, perché sfugge loro il senso di lungo termine delle strategie keynesiane, e tendono a ricondurre il ruolo della spesa pubblica nei limiti di una strategia anticongiunturale. Anche qui per dipanare la matassa occorre far riferimento alla storia recente. Il meccanismo di sviluppo alimentato dalla politiche keynesiane si inceppa nel corso degli anni Settanta. Uno degli elementi che contribuiscono a questo blocco è la cosiddetta “crisi fiscale dello stato”. Mentre fino a quel momento le spese pubbliche attuate secondo le indicazioni di Beveridge si ripagavano ampiamente, grazie agli effetti moltiplicativi sul reddito, da quel momento, cadendo il valore del moltiplicatore, lo stato poteva seguire i suggerimenti keynesiani solo operando effettivamente in deficit. Per cogliere il senso positivo di questa strategia si doveva però riconoscere la natura limitativa del rapporto di denaro, e intravedere la possibilità di un suo superamento. Ma la società non era affatto matura per questo passaggio. Si è pertanto cominciato a ritornare alle strategie prekeyensiane, che contemplano un vincolo di bilancio.

Il coronamento di questo regresso ha avuto luogo con gli articoli del trattato di Maastricht che impongono un limite al deficit, un limite al debito e l’autonomia delle banche centrali dai governi. Per accettare questi vincoli occorre credere, come fa Messori, che sia data la possibilità di una nuova fase di sviluppo senza un mutamento della base sociale. In riferimento a questa convinzione, si deve essere consapevoli che essa confuta alla radice l’essenza della stessa «rivoluzione» keynesiana. In Prospettive economiche per i nostri nipoti (1933) Keynes delinea molto chiaramente le tendenze di lungo periodo che sarebbero conseguite alla attuazione della politiche del pieno impiego che suggeriva. Il progresso tecnico rende superflue molte delle attività tradizionali, nel senso che consente di soddisfare i bisogni corrispondenti con sempre meno lavoro. Con l’intervento dello stato nell’economia si può far fronte alla incapacità che i capitalisti dimostrano di trovare nuovi impieghi per il lavoro «liberato», utilizzando questo lavoro per soddisfare i grandi bisogni sociali. (Non va dimenticato che, come riconoscono gli stessi economisti conservatori, tutta l’occupazione creata nel trentennio keynesiano in Europa è stata occupazione pubblica.)

Ma quando si sarà conquistata una capacità produttiva enormemente superiore, anche l’espansione dell’attività produttiva pubblica sbatterà contro un limite. Keynes non è mai così acuto come Marx nel sottolineare che la forma dell’attività produttiva non sarà più in grado di mediare lo sviluppo, ma dice sostanzialmente la stessa cosa. Ed è qui che interviene il problema del rapporto con il deficit pubblico. Se si crede, come fa Messori che «la perdita di attività tradizionali non lascerà il vuoto ma sarà sostituita da qualcosa di meglio per il sistema e per i lavoratori direttamente coinvolti» è ovvio che del deficit non c’è alcun bisogno. I lavori sostitutivi potranno infatti sostenere le attività necessarie a soddisfare i bisogni di base, la riproduzione corrente della società. Ma se invece si conviene con Keynes, e si interpreta la crisi sopravvenuta a partire dagli anni Settanta come espressione di una difficoltà di riprodurre il lavoro, il deficit rimane l’unica ancora di salvezza per il sistema e per i singoli. Limitando la spesa si limita altrimenti l’utilizzazione della forza lavoro e delle risorse disponibili, cioè si pratica un impoverimento economicamente ingiustificato. La posizione di Realfonzo e di Santoro ha senso nell’ambito di questa prospettiva, anche se entrambi la formulano concedendo ancora uno spazio a pratiche keynesiane, che personalmente non mi sento di concedere.

Per questo considero l’opposizione alle politiche di sacrifici e risparmi come una strategia meramente difensiva, e credo che un nuovo sviluppo possa intervenire solo se si conquista la capacità di convenire sull’obiettivo di una redistribuzione generale del lavoro, che ovviamente comporta una drastica riduzione del tempo individuale di lavoro. Ma questo è un discorso aggiuntivo che richiede un approfondimento che va al di là di queste righe.