Apartheid coloniale in lingua fascista

Il 19 aprile 1937 segna una data importante per la storia del razzismo fascista. In quel giorno infatti fu varato il Regio Decreto n. 880, quella che possiamo definire la prima legge dichiaratamente razzista del regime. Composta da un unico articolo, essa puniva con la reclusione da uno a cinque anni di carcere il bianco sorpreso in «relazione di indole coniugale» con una donna africana. Nei documenti d’accompagnamento e nella pubblicistica che accompagnò questa svolta della politica indigena si legge che la norma intendeva colpire chi si fosse macchiato del delitto biologico di «inquinare la razza» facendo nascere i cosiddetti «meticci» e del delitto morale di «elevare» l’indigena al proprio livello perdendo quindi il prestigio che gli derivava dall’appartenenza alla «razza superiore». Per capire a pieno la portata di questa svolta è però necessario andare indietro di qualche anno.
Nelle colonie che il fascismo ereditò dal periodo liberale, il razzismo era già uno degli strumenti simbolici funzionanti per la gestione del dominio della comunità bianca e per assicurare il riconoscimento di quello che veniva definito «superiore prestigio degli italiani». Si trattava di un razzismo sociale, diffuso, implicito nelle pratiche d’amministrazione della colonia. Nella società coloniale, infatti, erano operanti una serie di dispositivi – i quartieri divisi etnicamente, le scuole per la popolazione indigena separate da quelle per gli italiani e limitate ai livelli più bassi di istruzione, l’autorità limitata dei poliziotti africani verso i bianchi – che ribadivano una «linea del colore» imposta da quarant’anni di occupazione e ormai percepita come naturale dalle stesse popolazioni indigene. In questo contesto si era diffusa la pratica – insieme razzista e sessista – del «madamato»: la consuetudine dei bianchi di affittare ragazze indigene per il periodo di permanenza in colonia come serve domestiche e sessuali. I figli generati da queste unioni, definiti «meticci» e considerati incroci razziali, erano in maggioranza abbandonati alla madre indigena al momento del ritorno del padre bianco in Italia. Solo per una piccola minoranza di essi, riconosciuta dai padri o educata dai missionari alla cultura italiana, rimanevano aperte limitate finestre di concessione della cittadinanza italiana, a tutela di quella parte di «sangue bianco» che in questi casi aveva potuto mettere radici.
Identità di regime
Con l’approssimarsi della guerra di conquista dell’Etiopia questa tipologia di razzismo divenne inadeguata ai propositi del regime. Essa infatti garantiva la gerarchia tra le due comunità ma permetteva anche una contiguità e una serie di contatti tra dominatori e dominati tali da rappresentare un problema nella nuova ottica di presenza massiccia di italiani al seguito della guerra e dei progetti di popolamento. Così Mussolini e i gerarchi, parallelamente alla preparazione dell’invasione dell’Etiopia, misero a punto una politica razzista diversa, rigidamemente separatista oltre che gerarchizzante. Inoltre tale politica fu progressivamente adottata come fattore identitario del regime e venne propagandata con forza quale tratto caratteristico della colonizzazione fascista che quindi si autocelebrava come avanguardia dell’affermazione della «civiltà bianca» in Africa. I primi segnali di questo mutamento di indirizzo risalgono al 1934, quando il sequestro del romanzo Sambadù, un amore negro che narrava un amore interrazziale fu anche l’occasione per l’istituzione della censura preventiva. Da quel momento i passi si succedettero rapidi: nel 1935 Mussolini chiese d’urgenza un piano d’azione per evitare che, per effetto della colonizzazione, si potesse formare una «generazione di mulatti in Africa Orientale». Quindi, subito dopo la presa di Addis Abeba, furono emesse le nuove Direttive per assicurare una «netta separazione tra le due razze bianca e nera». Diventavano così operanti le disposizioni per la divisione delle abitazioni e dei locali pubblici, capisaldi di un apartheid fascista che, nonostante le difficoltà logistiche ed economiche, si sarebbe venuto progressivamente delineando nei cinque anni di dominazione imperiale. Nello stesso testo era affrontato anche l’altro grande nucleo della nuova politica fascista della razza, quello ostile agli incroci, con gli «ordini del Duce» contro il madamato: obbligo per gli ammogliati di portare la famiglia in colonia, provvedimenti di polizia contro i nazionali che convivessero con donne indigene e allestimento di case di tolleranza riservate agli italiani con donne di razza bianca.
Fu nel 1937, in occasione del varo del decreto contro le unioni miste, che questa politica razziale, fino ad allora cresciuta tramite direttive riservate e ordinanze, acquisì forza di legge e divenne propaganda di regime.
La virilità bianca
La repressione del madamato attraverso la legge del 1937 ebbe la massima applicazione nel 1938, proprio in corrispondenza con l’emanazione della normativa antisemita. Un’ondata di denunce e arresti colpì le relazioni che erano continuate in segreto. Si giunse all’estremo: anche la prostituzione, generalmente considerata lecita come canale di sfogo fisiologico della «naturale virilità dell’uomo bianco fascista», diveniva punibile se accompagnata da gesti d’umanità o tenerezza, come procurare medicine, fare doni, mangiare allo stesso tavolo.Negli anni successivi, mentre continuava la riorganizzazione degli spazi sociali secondo il principio della segregazione, altre due leggi concorsero a completare l’architettura legislativa del razzismo coloniale di stato. La legge 1004 riprese le precedenti disposizioni che, insieme ad altri inediti reati, furono sussunte sotto il nuovo e ambiguo concetto giuridico di «prestigio di razza». Nel 1940 la legge 820 decretò il destino dei cosiddetti meticci: furono associati alla comunità indigena. La loro demonizzazione come «dolorosa piaga, sorgente di infelici e di spostati, cause di irrequietudini e di debolezze», «ramo anormale della famiglia umana» era cresciuta riprendendo stereotipi maturati anche nel corso della campagna antiebraica. Con la condanna del «sangue africano» presente nel meticco e fonte di un possibile processo di degenerazione si concludeva l’evoluzione del razzismo fascista in colonia. Dì lì a poco, la perdita delle colonie nel corso del conflitto mondiale pose fine a questa pagina tra le più rimosse e più turpi della storia nazionale.