L’India sarà il paese ospite alla Fiera di Francoforte di quest’anno. Come mai lei non ci sarà? Voglio stare lontana dalla vita pubblica per un po’. Da dieci anni sono impegnata in diverse battaglie politiche, come quelle contro la diga sul Narmada, la globalizzazione liberista, la guerra in Iraq. Il mondo ha invaso tutti gli spazi della mia vita e questo ha comportato anche dolorosi sacrifici personali. Inoltre ho dovuto viaggiare in continuazione e studiare relazioni, statistiche, documenti legali. Quando si ha a che fare con i potenti bisogna essere molto precisi. Ogni volta che scrivevo qualcosa avevo la sensazione di stare sui carboni ardenti, tanta era la paura di usare dati sbagliati. Sento che è arrivato il momento di liberarmi dalla costrizione dei dati. Esiste una verità al di là delle statistiche e delle cifre. Ed è quella che voglio cercare.
A dieci anni dal successo del Dio delle piccole cose, vuole rimettersi a scrivere un romanzo?
Forse sarà qualcosa di completamente diverso. Sto cercando ancora di liberarmi del peso che mi sono portata dietro per tutto questo tempo. Poi troverò il modo di esprimere le mie esperienze in modo nuovo.
Lei ha sostenuto che gli attacchi dell’Il settembre erano una reazione alla violenza statunitense. All’epoca questo giudizio è sembrato a molti una provocazione. A cinque anni di distanza, cosa ha pensato sentendo la notizia degli attentati sventati a Londra e in Germania?
Ho avuto i brividi. Il mondo è in guerra e la sofferenza può colpire alla cieca chiunque: nessuna misura di sicurezza e sorveglianza, per quanto grande, riuscirà a proteggerci. Le guerre in Iraq e in Libano, l’occupazione della Palestina, dell’Iraq e del Kashmir semineranno il loro potenziale di violenza dappertutto, in maniera imprevedibile, con il preciso intento di diffondere la paura.
Quelli di noi che moriranno lo dovranno all’arroganza, al razzismo e alla miopia degli uomini più potenti del mondo: anzitutto di George W. Bush, di Tony Blair, del governo israeliano e, per quanto riguarda il Kashmir, anche di quello indiano. Questi uomini hanno il potere di fermare la violenza, ma non vogliono farlo.
Questo terrorismo è davvero di matrice politica, oppure è semplicemente un fenomeno criminale?
Se separiamo il terrorismo dalle sue radici politiche e stori¬che, la violenza ci divorerà. In un conflitto, che si tratti di pae¬si, di religioni, o anche di amici o di marito e moglie, è sempre possibile cavarsela a buon mercato dichiarando che l’altro è matto o che è un mostro, senza mettere in questione noi stessi. Ma noi sappiamo che governi legittimi hanno compiuto, con le loro bombe legittime, crimini molto più grandi di quelli dei terroristi. E noi non siamo riusciti a impedirglielo.
Non ha mai voluto essere definita un’attivista. Eppure lo scorso marzo è stata vista ancora una volta in una strada di Delhi, mentre distribuiva volantini su cui c’era scritto: “Bush vattene!”
Ero esasperata dalla frenesia pro- Bush che imperversava in tanti mezzi di comunicazione indiani. Pareva che Gesù fosse sceso dal cielo! E poi volevo sentire che cosa pensava la gente della nuova alleanza tra Stati Uniti e India.
Secondo i sondaggi, due terzi degli indiani sono relativamente bendisposti nei confronti degli Stati Uniti.
Il punto è: come sono stati svolti quèsti sondaggi? Per sms? Comunque mi spaventa l’idea che si realizzi l’accordo nucleare di cui l’India e gli Stati Uniti hanno discusso durante la visita di Bush. Il mio paese si impegna sempre di più nel campo dell’energia nucleare, senza alcuna prospettiva di formulare un piano energetico generale e confidando sul sostegno tec¬nologico di Washington. Alla fine, dopo che avremo speso una fortuna per i reattori, dipenderemo da una superpotenza inaffidabile per procurarci il materiale fissile necessario ad alimentarli. Ma perché il governo indiano, prima di mettersi nelle mani degli Stati Uniti, non riflette sul loro comportamento con alleati come il Pakistan, l’Afghanistan o l’Iraq?
Il contributo delle centrali atomiche al fabbisogno energetico indiano sarà comunque molto limitato. Non le pare un po’ esagerato parlare di dipendenza? E non crede che il vero obiettivo dell’India sia quello di essere riconosciuta come una potenza atomica? È una questione importante, almeno finché saranno le potenze nucleari a decidere la politica mondiale.
È proprio questa logica a generare una strana confusione in India: attualmente sono i nazionalisti indù del Bharatiyajanata party (Bjp) e alcune frange del Partito del congresso a dimostrarsi i più umili servitori degli americani. Noi invece, che in passato condannavamo – in piena sintonia con Washington – la corsa indiana agli armamenti atomici al di fuori del trattato di non proliferazione, ora ci opponiamo al controllo del programma nucleare indiano da parte degli Stati Uniti. In un saggio ho scritto che se decidiamo di entrare nel gioco delle armi atomiche, saranno gli statunitensi a dettare le regole. E così è stato.
In realtà gli Stati Uniti si interessano alla potenza nucleare indiana anche per altri motivi, perché considerano il paese un utile alleato nella lotta di potere con la Cina.
L’amicizia tra India e Stati Uniti si basa sul fatto che il mio paese è in svendita. Il settore energetico, quello idrico e molte altre aree dell’economia devono aprirsi alle privatizzazioni. Vengano, vengano pure tutti qui! Per questo il nuovo ceto medio è sensibile al canto della grande potenza. Della cultura indiana alla fine non resta altro che il gesto incantevole con cui, nelle pubblicità della British Airways, le hostess sorridenti congiungono le mani nell’atto di recitare il mantra della dea Gayatrio
Ma il ceto medio non è monolitico. L’accordo sul nucleare è oggetto di un ‘articolata discussione.
Certo. Ma ci sono vari fattori che s’incastrano come pezzi di un puzzle, e fanno sì che l’India, un tempo paese non allineato, si stia trasformando sempre di più in un fedele alleato degli Stati Uniti. Inoltre sta anche cercando di innalzarsi al di sopra degli altri paesi in via di sviluppo, invece di compiere un progresso economico insieme a loro.
Da cosa è composto questo puzzle?
Penso per esempio all’influenza degli indiani all’estero: ce ne sono più di un milione e mezzo negli Stati Uniti. Sono tutti scienziati, impiegati di banca, esponenti di successo del ceto medio-alto, completamente integrati nel sistema statunitense. Oggi sembra che indiani e israeliani facciano a gara per mostrare chi è più remissivo nei confronti di Washington. Un altro pezzo del puzzle riguarda le tensioni religiose dell’India. L’avvicinamento agli Stati Uniti è cominciato con l’arrivo al governo dei nazionalisti indù. La loro politica antimusulmana èin perfetta sintonia con la guerra al terrorismo.
Oggi, però, la coalizione di governo è guidata dal Partito del congresso, deciso sostenitore della tradizione laica indiana.
Le tensioni religiose sono sempre strumentalizzate in occasione delle elezioni, solo che il partito nazionalista indù Bjp lo fa alla luce del sole, mentre il Partito del congresso lo fa nell’ombra. È una grande differenza. Il Bjp ha scatenato apertamente violenze brutali contro i musulmani. Nello stato del Gujarat, dove i nazionalisti indù continuano a governare, la repressione economica dei musulmani è in pieno corso. La maggioranza ha riconfermato il suo sostegno al dittatore Narendra Modi, perfino dopo i pogrom antimusulmani del 2002, tollerati dallo stato, che hanno provocato 2.500 morti. È un fascista liberamente eletto: cosa si può fare per affrontarlo? Il Partito del congresso ha fatto troppo poco per opporsi.
Proprio gli avvenimenti del Gujarat sono stati uno dei principali motivi per cui due anni fa il Bjp ha perso voti ed è stato sconfitto dal Partito del congresso.
Questa è la versione che il ceto medio vorrebbe accreditare, perché attenua i conflitti interni. Ma in realtà c’è un altro motivo, ben più importante, dietro la scelta degli elettori. La maggioranza degli indiani ha bocciato il programma neoliberista, soprattutto perché porta a un impoverimento di enormi proporzioni.
Tuttavia i sostenitori del liberismo possono vantare dei risultati positivi. La concorrenza della superpotenza economica indiana comincia a preoccupare l’Europa e gli Stati Uniti. L’occidente non ha mai tollerato di essere sorpassato da qualcuno che ha la pelle scura.
In India c’è più benessere e il ceto medio continua a crescere.
Certo, si sta formando una classe completamente nuova che, per la prima volta nella storia, vive piuttosto bene. E chi vuole impedirglielo? I calI center creano molti posti di lavoro per i giovani, che sentono comunque di aver avuto successo, anche se poi tanti ne escono con i nervi a pezzi. Tuttavia, mentre questa classe cresce, anche gli altri aumentano e vengono derubati del minimo indispensabile per vivere, per colpa di quello stesso sistema. Il divario tra i redditi nelle città e nelle campagne è più profondo che mai. In alcune regioni dell’India gli abitanti hanno meno da mangiare che nell’Africa meridionale. Nell’ultimo decennio decine di migliaia di persone si sono tolte la vita. Ogni grande progetto di sviluppo e di creazione di infrastrutture – che si tratti di una fabbrica, di una diga o di un centro di ricerche tecnologiche – comincia con l’esproprio delle terre dei residenti.
È quello che è accaduto nel caso del bacino artificiale di Sardar-Sarovar lungo il corso del fiume Narmada, contro cui anche lei ha combattuto per tanti anni. Eppure, nonostante uno sciopero della fame e le manifestazioni della primavera scorsa, i lavori sono ripresi.
Sì, abbiamo perso quella battaglia. Il principio secondo cui chi ha perso la sua terra ne riceverà dell’altra in misura equivalente non viene più rispettato. Cosa succederà ai più poveri dei poveri, a quelli che non possiedono neppure un ettaro? Dove andranno? A Delhi? Anche lì saranno cacciati dalle loro minuscole baracche. La capitale si sta facendo bella per i giochi del Commonwealth, nel tentativo di attirare gli investimenti stranieri. I venditori ambulanti per strada potrebbero dare fastidio agli affari di Wal-Mart. Alla fine, questi miserabili senzaterra, che hanno perso tutto – cultura, tradizione e modo di vivere – si riducono a dormire sotto i ponti e i loro figli chiedono l’elemosina ai semafori. Diversamente da quanto accade in Sudamerica, continuano a rassegnarsi a questo destino. La miscela indiana di neoliberismo e feudalesimo è spaventosa.
In un’intervista al quotidiano The Hindu, si è espressa in termini diversi: “La rabbia sta crescendo in tutto il paese” ha detto. È possibile che il fatalismo dei poveri abbia dei limiti?
Di recente sono stata a Kalinganagar, nello stato indiano dell’Orissa. Le multinazionali sono arrivate in questa regione quando sono stati scoperti importanti giacimenti di minerali ferrosi e di altre materie prime. Anche il gruppo indiano Tata ha chiesto un terreno per costruire una grande acciaieria e l’ha ottenuto dal governo per una somma di gran lunga inferiore al prezzo di mercato. Il terreno era stato espropriato alle popolazioni indigene, gli adivasi, in cambio di una somma ancora più bassa. C’è stata una rivolta, ma è intervenuta la polizia con i fucili. Sono morte dodici persone, altre sono state torturate. C’è una situazione da stato di polizia. Anche nell’Orissa, ormai, i maoisti conquistano sempre più consensi.
Lo stesso succede in altri 13 dei 28 stati della.federazione in diana. Il primo ministro Manmohan Singh sostiene che le frange violente di questo movimento sono un grave pericolo per il paese.
Naturalmente c’è un rapporto tra questa radicalizzazione e il neoliberismo: i maoisti sono più forti proprio nelle regioni più povere. La cosa spaventosa è che i governi reagiscono mettendo in campo unità paramilitari, come in Sudamerica. In condizioni di grande povertà, non è difficile far imbracciare un fucile al primo che capita in cambio di qualche soldo. Così il governo spinge la milizia del Salwa Judum a dar la caccia ai maoisti e in tal modo ottiene che i più poveri di tutti combattano contro quelli un po’ meno poveri. Così, non solo nel Kashmir, ma anche in molte altre regioni indiane sta scoppiando una guerra civile.
Il governo di Singh aveva promesso che dopo le elezioni avrebbe affrontato il problema della povertà dilagante, in particolare nelle campagne. Ha mantenuto la parola?
Ha promosso qualche buona iniziativa. Per esempio, quella di garantire un’occupazione ai più poveri per almeno cento giorni. Ma che senso ha una politica economica che priva milioni di abitanti delle campagne dei loro mezzi di sussistenza e poi li mette a spaccare pietre per un paio di mesi all’anno? Prima si crea la povertà e poi si cerca di eliminarla rendendo i lavoratori dipendenti dallo stato.
In India due terzi della popolazione vive di agricoltura. Il governo sostiene che questa situazione non potrà durare a lungo.Anche nel nord del mondo l’industrializzazione ha portato a fenomeni come le colture intensive e l’inurbamento.
Ma in India questo processo avviene in un contesto del tutto diverso. Sia l’agricoltore che possiede le terre sia i braccianti che le lavorano se ne vanno in città in cerca di lavoro. Vogliamo diventare una nazione di spaccasassi? Per non parlare della distruzione dell’ambiente. Abbiamo un’enorme carenza di acqua potabile, c’è sempre più siccità. Bisogna tenere conto di tutto l’insieme, invece di seguire solo teorie astratte.
Eppure i contadini sono scappati nelle città ben prima della liberalizzazione dei mercati. Non le sembra anacronistico rimpiangere l’agricoltura di sussistenza?
Non dico che saremmo dovuti restare prigionieri del modo di vita tradizionale. In fondo siamo proprio noi a volere l’internazionalismo e lo scambio globale, anche per quanto riguarda le idee che promuovono lo sviluppo. Solo, non dobbiamo compiere l’errore di molti economisti, che vogliono rispondere a questi problemi con un’unica idea prestabilita. Si devono trovare soluzioni diverse per i diversi ecosistemi. Ogni idea ha un’alternativa: ogni decisione politica poteva essere diversa.
Alla fine, tutte le scelte sono una funzione delle strutture di potere. Il problema, in India, è che i contadini poveri non contano nulla. È tempo che nasca un’opposizione seria.
A chi pensa? Alle organizzazioni non governative?
In Europa le ong hanno un ruolo diverso rispetto ai paesi in via di sviluppo. Soprattutto nelle zone di conflitto, possono lavorare solo se il governo le tollera. Perciò le ong imparano l’arte della trattativa: la loro capacità di opporre resistenza si esaurisce e tutto finisce con un po’ di beneficenza e molta deresponsabilizzazione. Non ho ancora una risposta. È un altro dei motivi per cui vorrei ritirarmi. Vorrei capire perché abbiamo fallito con la diga sul Narmada: perché, dopo tutte le manifestazioni, gli scioperi della fame, le iniziative legali, la resistenza non violenta è stata repressa con una brutalità pari a quella che viene usata contro la lotta armata. Ci siamo fidati troppo dello stato di diritto? In India i potenti devono prendersi un bello spavento prima che nasca un sistema in cui la giustizia sia garantita a tutti.
Sta facendo un’apologia della violenza?
No, cerco una strada.
Molti suoi critici obiettano che anche la riflessione e il compromessofanno parte della democrazia.
Molti miei amici politici sono bravi diplomatici. Ma non tutti sono così e io mi considero una privilegiata perché posso parlare senza accettare compromessi. Il denaro non ha mai significato molto per me, e dopo il successo del Dio delle piccole cose ne ho guadagnato più di quanto ne avessi mai desiderato. Perciò non me ne occorre altro, né ho bisogno di un lavoro o di riconoscimenti. Posso permettermi di infrangere dei tabù.
Lei vive in un paese contraddittorio ed estremamente vitale, ma si occupa solo dei suoi aspetti più cupi. Da dove prende le energie per continuare a farlo?
Probabilmente dal fatto che non voglio diventare nessuno. Sono scrittrice, sono curiosa e voglio capire come funziona il mondo, come ragiona la gente e in che modo si adatta al suo ambiente. Se avessi voluto raggiungere qualcosa, sarei già esausta; ma non lo sono. Inoltre la mia critica alla politica del libero mercato globale mi ha portato in contatto con persone straordinarie in tutto il mondo. Sono loro ad alimentare la mia attenzione per la vita, la mia fede nella varietà e nella diversità.
Almeno dal punto di vista letterario, ha accettato dei compromessi. Alcuni suoi saggi degli ultimi anni somigliano a dei pamphlet propagandistici. Non ha sentito la mancanza della sensualità della lingua, della poesia?
Il mio rapporto con la lingua è troppo istintivo per poter rispondere a questa domanda. Adesso mi sto dedicando con gioia a qualcosa di nuovo. In tutto quello che ho visto, imparato e criticato, c’è la Storia. Voglio tornare a riflettere sulla bellezza, sui sentimenti, sulle cose per cui abbiamo litigato in tutti questi anni.
I testi per una causa nascono dalle mie azioni pubbliche: da interminabili conversazioni, da viaggi e osservazioni fatte per strada. La letteratura, invece, è frutto della solitudine. Ora mi addentro in altri luoghi con l’immaginazione, metto alla prova la lingua. Quale sarà il risultato? Non so come andrà a finire: è per questa suspense che vivo.
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ArundhatiRoy, nata nel 1961 nello stato del Kerala, è la più famosa scrittrice indiana contemporanea. Vive a New Delhi. Nel 1997 ha vinto il prestigioso Booker Prize con Il dio delle piccole cose (Tea 2001).