Anniversario di guerra: Bush fugge le domande

Pochi minuti e via, senza rispondere a nessuna delle domade che i giornalisti, mentre lui si allontanava rapidamente, gli urlavano dietro. Si è svolta così la coraggiosa celebrazione di George Bush dell’ingresso nel quinto anno della guerra in Iraq. Stavolta però, nonostante le cose da lui dette siano state in gran parte disperatamente quelle di sempre («Stiamo facendo progressi», «Questa guerra può ancora essere vinta»), la sua faccia mesta diceva tutto il contrario e le stesse parole da lui pronunciate tradivano qua e là una certa confusione e un pessimismo che ormai sembra essersi impadronito anche di lui. «In questa fase della guerra, la nostra missione più importante è aiutare gli iracheni a rendere più sicura la loro capitale» perché «finché i cittadini di Baghdad non si sentiranno sicuri nelle loro case e nei loro quartieri sarà difficile fare progressi sulla riconciliazione e la ricostruzione economica, che sono i due passi più importanti». Lo ha detto con un tono da «è tutto ciò che possiamo fare», apparentemente del tutto dimentico che solo poche frasi prima si era dichiarato compiaciuto del fatto che «i leader del nuovo governo iracheno stanno rispettando l’impegno di lavorare sulla via delle riconciliazione». Nessuna illusione, comunque, ha aggiunto perpetuando questo andamento da montagne russe, per arrivare a una Baghdad sicura «ci vorranno mesi, non giorni o settimane», perché “«a nuova strategia ha bisogno di più tempo per avere effetti» e nel prossimo futuro ci saranno «buone e cattive giornate».
Che fare allora? «Così come gli iracheni lavorano per rispettare i loro impegni, noi dobbiamo rispettare i nostri». I suoi, di impegni, non li ha saputi indicare, ma su quale sia l’impegno del Congresso non ha avuto dubbi: deve approvare i 124 nuovi miliardi di dollari che lui ha già chiesto per continuare a finanziare la guerra e deve farlo «senza ritardi e senza lacci», cioè senza elementi «aggiuntivi» nella legge di stanziamento. Il riferimento era ovviamente al fatto che i democratici stanno tentando di inserire nello stanziamento la condizione che venga fissato un termine per il ritorno a casa delle truppe. Sono settimane che lui minaccia di porre il veto su questo, ma ieri la minaccia se l’è tenuta per sé, forse memore del siparietto che l’altro giorno ha avuto il suo portavoce Tony Snow con alcuni giornalisti. Fissare il termine «è una cosa che porta dritti dritti alla sconfitta», aveva tuonato Snow. «Una ricetta sicura per il fallimento, non per la vittoria». Uno dei presenti gli aveva chiesto quale fosse allora la ricetta per la vittoria e lui lo aveva apostrofato con «tu chiudi la bocca», di cui poi si era scusato.
C’è molto nervosismo, insomma, alla Casa bianca, che forse si spiega coi sondaggi che continuano a lasciare Bush sempre più solo con la sua guerra, ai quali ora se n’è aggiunto un altro piuttosto speciale compiuto proprio in Iraq, commissionato dalla britannica Bbc, dalle americane Abc e Usa e dalla tedesca Ard Tv. Non è un sondaggio facile da fare, data la situazione, tanto che uno simile risale addirittura al 2004, quando il suo responso disse che i due terzi degli iracheni erano «ottimisti ma non più di tanto» sul loro futuro e quello del loro paese. Cosa ne pensano ora, a quasi tre anni di distanza? Il 18% degli interpellati dice che vuole che le truppe americane rimangano; il 78 dice che se ne devono andare; il 69 dice che la loro presenza peggiora le cose e il 51% dice apertamente che gli attacchi contro i soldati Usa sono giustificati.
Bush però dice che bisogna restare, «sebbene capisco che ci sia la tentazione di fare fagotto e andarsene», perché ne va della sicurezza degli Stati Uniti. Il rischio infatti è che grazie al caos che le truppe americane si lascerebbero alle spalle «i terroristi potrebbero ottenere un nuovo santuario in Iraq, come quello che avevano in Afghanistan e che hanno usato per l’attacco dell’11 settembre 2001».
Un momento, ma l’Iraq non è stato invaso perché era «già» un santuario per i terroristi, come Bush, il suo vice Dick Cheney, la stizzosa Condoleezza Rice e l’irascibile Donald Rumsfeld avevano sistematicamente ripetuto? La confusione alla Casa bianca dev’essere proprio grande, in questi giorni.