Ancora una scelta di guerra costituente

Fino all’ultimo il Consiglio dei ministri è rimasto indeciso. C’era poco da essere indecisi, dopo le porte sbattute in faccia da Massimo D’Alema alla sinistra pacifista, quando ha ammonito che un governo deve avere una maggioranza e che di ritiro manco a parlarne. E, proprio nelle stesse ore in cui da Vicenza arrivava l’appello alla manifestazione pacifista contro l’allargamento della base americana, tre ministri, Paolo Ferrero (Prc), Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi) e Alessandro Bianchi (Pdci) hanno coraggiosamente confermato che non avrebbero votato il decreto di rifinanziamento della missione di guerra italiana a Kabul. Che di guerra era quando venne decisa in modo bipartisan nel novembre 2001 – al seguito della vendetta americana dopo l’11 settembre – e di guerra è. Con le nostre truppe in piena zona di combattimento, inserite nella catena di comando e controllo del Pentagono, tanto che né il governo italiano né il parlamento possono intervenire davvero. Parlare di missione di pace e intervento umanitario è pura ipocrisia, dice il generale Fabio Mini. Basta guardare al vertice Nato di oggi dove il segretario di stato Usa Condoleezza Rice, incontrando D’Alema e gli altri leader dell’Alleanza atlantica, annuncerà il nuovo piano di Bush per l’Afghanistan, che prevede 10,6 miliardi di dollari per domare la ribellione taleban e per la «ricostruzione», battendo cassa verso gli alleati per nuovi fondi e altre truppe. Mentre i comandi militari sul campo parlano di una grande offensiva militare a marzo e già 3.200 marines che dovevano rientrare resteranno sul terreno.
Così ieri, per andare oggi da Condy senza eskimo, hanno tentato di tutto. Un voto contrario o un «non voto» adesso della sinistra radicale, per poi accoglierne in aula con mozioni i contenuti, come la Conferenza internazionale di pace (una chiacchiera che nessuno vuole). Ma nessuna data per una via d’uscita dal pantano che fa sempre di più l’Afghanistan eguale all’Iraq. Perché dall’Afghanistan i soldati italiani se ne devono andare. Solo più intervento civile e cooperazione, senza sapere dove e come sono stati gestiti i fondi finora elargiti. E come, dove e da chi, durante una guerra in corso, saranno gestiti.
Appannamento? Si aumentano le spese militari in Finanziaria (ben 22 miliardi di euro, più del doppio della spesa per l’università e la ricerca), si rifinanzia la presenza militare italiana con un occhio alla concessione di una logistica di pronto impiego nelle guerre come a Vicenza (e a Sigonella), tutti zitti sull’arrivo di una superflotta di sei navi da guerra Usa in Sicilia. «Siamo persone serie» dice D’Alema.
E’ la «guerra costituente», la prova da dare per essere adeguati ad un governo moderno e globalizzato, nata ben prima dell’11 settembre 2001, e da troppo tempo con la sinistra di governo protagonista. Ma non può sfuggire che proprio negli stessi giorni, negli Stati uniti e in Italia, e per due compagini di governo completamente diverse – quella repubblicana e neocon di Bush e quella democratica di centrosinistra di Prodi – è proprio la guerra ad entrare in crisi, a fare cortocircuito. Tanto da minare le basi stesse della legittimità a governare.