Anche per Ford 30 mila licenziamenti

Katrina ha dato soltanto il colpo finale. La produzione automobilistica statunitense, da sempre incentrata su auto di grande e voracissima cilindrata, è costretta ad arretrare dall’improvvisa «scoperta» che il prezzo del carburante è ormai troppo alto. Dopo General Motors – ancora oggi, di poco, primo produttore mondiale di quattro ruote – anche la Ford ha messo in cantiere il suo piano di ristrutturazione. E’ praticamente identico a quello della sorella maggiore: 10 stabilimenti da chiudere (in Gm sono 12), 30.000 lavoratori da mandare a casa nel corso dei prossimi cinque anni. Poco più del 10% dei dipendenti globali della società. L’unica incertezza riguarda l’identità dei siti produttivi da dismettere, la cui lista è ancora in via di definizione. Del resto, nei primi nove mesi del 2005, i profitti ante-tasse della società si sono trasformati in una perdita di 2,2 miliardi di dollari.

La notizia è frutto di uno scoop del Detroit Free Press, perché il piano era destinato a restare segreto fino al prossimo 23 gennaio. Ma non sembra aver sorpreso più di tanto né gli operatori di borsa (dopo l’annuncio, come al solito, il titolo Ford ha recuperato terreno) né il sindacato Uaw, che pure rappresenta 87.000 dipendenti negli States, e 11.600 in Canada. Nel 2002 un’altra decisione del genere aveva portato all’allontanamento di quasi 35.000 lavoratori tra Stati uniti, Canada e Messico. «Testa pensante» del piano sarebbe il numero uno della divisione americana, Mark Fields, che ha illustrato ieri il progetto al consiglio d’amministrazione, presieduto da Bill Ford jr. Il piano porta un nome ambizioso («Way Forward») ed è stato ovviamente concepito con l’obiettivo di rilanciare il gruppo, a partire dai suoi marchi storici: Ford, Mercury e Lincoln.

Ma proprio qui si nasconde il problema. Fuori degli Stati uniti il secondo e il terzo (specializzati in Suv e macchinoni da 5.000 cc) sono praticamente ignoti ai più. E sul mercato interno soffrono, come detto, dell’alto prezzo della benzina ancora più che della concorrenza giapponese (la Mazda, per esempio, fa ormai parte del gruppo Usa), tedesca o coreana. Basti ricordare un dato: gli scooter della Piaggio, da qualche mese a questa parte, stanno avendo vendite boom (almeno negli stati con temperature più miti).

Ci troviamo insomma davanti alla crisi di un modello di trasporto privato incentrato sul gigantismo e l’indifferenza agli alti consumi (si dice spesso che gli americani considerano quasi un «diritto costituzionale» pagare la benzina meno di 50 centesimi al litro). E che travolge soprattutto quei produttori che lo avevano incarnato a livello di massa (Gm e Ford restano tuttora fabbricanti di auto «per l’uomo comune», mentre nella fascia di lusso sono altri i protagonisti: come Cadillac, per dirne uno).

Infine, a dimostrazione che anche in America piove sul bagnato, la Ford si trova in questi giorni sotto l’attacco dell’American Family Association, una potente associazione integralista cristiana che ne ha indetto il boicottaggio a causa della pubblicità concessa anche a periodici gay. La società ha provato a rispondere promettendo di evitare, in futuro, simili politiche di advertising mirato. Naturalmente ha stimolato la controrisposta delle associazioni gay (e lesbische, transgender, ecc) le quali si «attendono che la Ford riaffermi pubblicamente il suo storico supporto alle nostre comunità». Tempi duri, per gli Agnelli d’America.