C’è un vasto arco di qualificate opinioni in Italia e nel mondo, che guarda oggi con grande apprensione all’esito della discussione sul rifinanziamento delle missioni militari da parte del nostro governo. Non si tratta di una questione qualunque: sul tema della pace e della guerra si sono da sempre – storicamente – delineati i caratteri distintivi della sinistra, le discriminanti di un’appartenenza politica. Con tale questione non si scherza: pena il pedaggio di un prezzo altissimo, in termini di dissipazione di convinzioni generali e aspirazioni di fondo. Le argomentazioni di linea politica hanno il dovere di misurarsi con la suddetta complessità di pensieri e sentimenti, posto che intendano essere davvero “realiste” e non scadere nel riduttivismo politicista o, peggio, alimentare toni ultimativi. La questione non concerne solo i comunisti e quanti, a proposito dell’intervento in Afghanistan, hanno sin dall’inizio stigmatizzato la natura imperialista di un’impresa bellica che disloca le armi e le basi militari del più potente stato del pianeta nel cuore dell’Asia, a ridosso di “potenze regionali emergenti”. Ad essere in gioco sono la passione e le opinioni di tutti quelli che hanno manifestato in questi anni per la pace. Non può essere assimilata ad un caso fortuito l’intransigente contrarietà al decreto sul rifinanziamento da parte di un operatore della solidarietà quale Gino Strada; così come dovrebbe far riflettere la portata simbolica della lettera di solidarietà agli otto senatori “ribelli” espressamente inviata da Noam Chomsky, forse l’intellettuale più influente nel movimento pacifista internazionale. Per non parlare della lettera di Tariq Ali pubblicata su ‘Il Manifesto’ (12-7-06), in cui si definisce l’eventuale voto a favore del decreto di proroga da parte del Prc “una tragedia per la sinistra europea”. Tre esempi autorevoli che mostrano già oggi il profilarsi di elementi di divisione, o quanto meno di difficoltà, nel rapporto con quanti sinora sono stati compagni di strada del Prc. L’ampiezza del malessere dovrebbe indurre le forze della sinistra di alternativa a ripensare l’adeguatezza della mediazione raggiunta, a chiedersi se quest’ultima non sacrifichi drammaticamente le implicazioni ideali della posta in gioco. Il punto di principio sta assieme ad un dato di fatto incontrovertibile. In Afghanistan non c’è alcuna “ricostruzione”, alcuna missione di “mantenimento della pace”; al contrario, c’è un teatro di guerra che dura da cinque anni. Non è solo Emergency a descriverne gli orrori. Sono gli stessi comandi militari, poco inclini ai giri di parole, a mettere in guardia la politica: non ponete le cose in termini troppo soft, lì si va per combattere. In effetti, la prospettiva immediata è quella di un ulteriore inasprimento del conflitto: anche in Afghanistan come in Iraq la “guerra preventiva e permanente” coglie così i suoi frutti avvelenati. Di qui bisogna partire per discutere tutto il resto. Parlare di “riduzione del danno” in siffatte condizioni suona davvero come un’impotente ipocrisia. Né si comprende cosa dovrebbe monitorare un Osservatorio parlamentare in una situazione già ampiamente compromessa. E’ paradossale che, in un tale contesto, il presidente degli Stati Uniti chieda al nostro governo di mantenere il proprio impegno militare in vista di una “nuova democrazia” afghana. Dire di no equivarrebbe ad uno sgarbo all’establishment Usa? Ebbene, per la pace e per il rispetto che ancora dobbiamo alla nostra Costituzione, un governo di alternativa alle destre degno di questo nome dovrebbe dire di no. Eppure, gli otto senatori cosiddetti “ribelli” non si sono spinti a tanto. Essi ribadiscono la propria contrarietà al decreto di proroga della missione, ma non intendono mettere in crisi il governo in carica e la maggioranza su cui si regge. Chiedono che il decreto introduca un elemento di discontinuità rispetto a quello che per otto volte in passato è stato proposto dal governo delle destre e che per otto volte essi hanno bocciato: non può essere un caso che il decreto così com’è trovi oggi la condivisione di ampi settori dell’opposizione. Essi lavorano ad una mediazione possibile. Apprezzano come una significativa vittoria il ritiro immediato dall’Iraq, ma non pretendono per l’Afghanistan la medesima tempistica. Individuano due punti essenziali su cui emendare il decreto e renderlo votabile: l’azzeramento della partecipazione italiana alla missione tutta americana Enduring Freedom (lanciata unilateralmente dagli Usa senza copertura Onu) e l’esplicitazione di un’inversione di tendenza che prefiguri il ritiro delle truppe italiane. Va ricordato che, se l’Afghanistan non compare nel programma dell’Unione, in quest’ultimo c’è comunque a chiare lettere il richiamo all’articolo 11 della Costituzione (così come, nel merito, c’è altrettanto chiaramente l’indicazione del voto disgiunto). Il vero interrogativo è quindi un altro: perché una proposta ragionevole, che indica una mediazione in grado di mantenere la compattezza della coalizione e rispedire al mittente soccorsi indesiderati, viene respinta? Come mai, su un tema tanto delicato, si fatica a stabilire un discrimine chiaro con le politiche del precedente governo? La verità è che il gruppo di parlamentari pacifisti sta contrastando nei contenuti la deriva neo-centrista. La quale purtroppo è in atto. Questo governo appare già dentro la logica delle “maggioranze variabili”: lo dimostrano il caso Menapace così come le esplicite dichiarazioni di Piero Fassino circa la possibilità di consensi da destra. E lo dimostra il segno politico delle misure economico-sociali annunciate con il varo del prossimo Dpef, che conferma una netta ispirazione neoliberista. Detto di passaggio, sarebbe un fatto veramente grottesco se fossero accusati di favorire tale deriva proprio coloro che richiamano la coalizione di alternativa alle destre al rispetto degli elementi fondanti la sua ragione sociale. Il “no alla guerra senza se e senza ma” è parte essenziale di tali fondamenti ed è patrimonio inalienabile del popolo della sinistra. Ne sarà testimonianza la vasta partecipazione all’assemblea convocata a Roma per il prossimo 15 luglio dagli otto senatori pacifisti.