Trattare con i talebani? Chi deve sedersi al tavolo della Conferenza di pace che ieri il ministro degli esteri D’Alema è andato a proporre in sede Onu? Il dibattito infuria anche tra il movimento pacifista, soprattutto tra quella parte che ha appoggiato sin da subito l’idea di restare in Afghanistan per cambiare rotta, piuttosto che chiedere il ritiro immediato delle truppe.
Ci sono le associazioni che espressero «fiducia» al governo dopo l’inciampo al senato (dai Beati costruttori di pace, all’Arci, alla Tavola della pace). Altre che si occupano di diritti umani e del mondo asiatico. Ma anche studiosi e esperti della situazione afghana. Ora si sono messi insieme per costruire un fronte informato sulla situazione afghana e provare a costruire «un percorso per la pace e la giustizia in Afghanistan». L’idea, che circola da un po’ di tempo, è che la cosiddetta società civile è piena zeppa di saperi e esperienze che un governo di centrosinistra non può ignorare. Dunque: anche associazioni e intellettuali proporranno una loro via d’uscita dal pantano afghano. L’obiettivo è di metterla a punto prima di ottobre, quando il ministro degli esteri è di nuovo atteso a New York per relazionare, questa volta, sulla parte militare della missione. Il primo appuntamento del «think tank» italiano è per il 26 marzo (il giorno dopo in senato si vota il decreto sul rifinanziamento dele missioni militari) all’hotel Bologna di Roma, dalle 10 alle 14.
Numerosi i «grumi» di problemi sul tavolo: dalle relazioni fra Nazioni unite e Nato alla geopolitica dell’oppio, dal ruolo dell’intervento militare e quello civile al ruolo degli altri paesi dell’area. Ma, da subito, bisognerà discutere della Conferenza internazionale. Con chi si tratta? «Le conferenze di pace hanno sempre un problema: la società civile viene tagliata fuori – spiega Raffaella Bolini dell’Arci, alle spalle una lunga esperienza nei Balcani – Questa volta non bisogna fare questo errore. E ascoltare con attenzione la preoccupazione di soggetti afghani, come le associazioni delle donne, che temono che i talebani vengano legittimati dalla trattativa. Come fare? Penso a un meccanismo che preveda tavoli di negoziato paralleli. Da una parte si parla con i nemici, perché è con loro che si fa la pace: dunque si negozia con chi spara. Dall’altra, però, ci devono essere tavoli aperti alla società civile, a chi rappresenta l’ala progressista della società, a chi è sempre stato vittima». Contraria a trattare con «chi si è macchiato di crimini contro l’umanità», a partire dai talebani per arrivare «a molti signori della guerra che siedono nel governo Karzai», Simona Cataldi della Cida, un’associazione a stretto contatto con quella di donne afghane Rawa. «Ci rendiamo conto che è necessario parlare con qualcuno, anche con esponenti di una visione ultraortodossa della società – osserva Cataldi – ma contemporaneamente sarebbe assurdo sdoganare chi ha compiuto atroci delitti. Le donne di Rawa non siederebbero mai a un tavolo dove sono presenti i talebani. Anche se loro stesse distinguono tra chi in questo momento sta combattendo al sud. Quelli che non sono legati né a Al Qaeda né al Pakistan potrebbero essere dei possibili interlocutori».
Ma c’è anche chi, come Gianni Rufini – docente di peace keeping all’università di York – definisce i talebani «una grande forza popolare». «Certamente a me non piacciono – spiega Rufini – Tuttavia godono di un ampio consenso popolare. Trattare con questi gruppi è indispensabile, anche se la Conferenza di pace non può essere l’unico elemento: occorre rivedere la missione Enduring Freedom, ridefinire il ruolo dell’Onu, puntare sulla ricostruzione. Ma chi non vuole trattare con i talebani, mi dica: che facciamo? Li uccidiamo tutti? Dovremmo tenere a mente che la comuità internazionale deve sempre cercare una soluzione politica alle controversie internazionali. Poi, se la trattativa fallisce, se qualcuno si rifiuta di trattare, come extrema ratio si possono anche imbracciare le armi». Ma c’è chi, come Elisa Giunchi dell’Università degli studi di Milano e autrice del libro «Afghanistan. Storia e cultura nel cuore dell’Asia» pubblicato a febbraio da Carocci, guarda con estremo scetticismo alla possibilità di trattare con i talebani: «Purtroppo la storia degli anni ’90 ci racconta come sia impossibile trattare con esponenti talebani. Hanno sempre rifiutato – osserva – Va però riconosciuto che il movimento neo talebano è composto da elementi anche molto diversi tra loro. La scommessa è trovare tra di loro interlocutori credibili. Magari tra chi non sposa la componente religiosa, ma quella più nazionalista. Il problema, però, è anche un altro: per essere incisiva la Conferenza dovrebbe vedere la partecipazione di paesi come India, Pakistan Iran. Ovviamente con gli Usa». Scontato osservare che non parlano la stessa lingua.