La dichiarazione votata dal Senato Usa, secondo la quale la dizione «guerra al terrorismo» non deve più essere usata e va sostituita da «guerra in Iraq, in Afghanistan, possibile guerra contro l’Iran» è di grande interesse. Probabilmente dovrà servire ai Democratici per preparare il ritiro dall’Afghanistan, sulla base della riflessione che dopo 5 anni dall’invasione avvenuta per fare la guerra al terrorismo, il terrorismo non è sconfitto, né si può prevedere di sconfiggerlo militarmente. Una decisione che rafforza la nostra proposta di avviare una conferenza internazionale di pace con tutti gli attori della guerra in Afghanistan, per mettere mano a una lotta che si dispieghi diplomaticamente, politicamente ed economicamente, e anche con operazioni di polizia internazionale contro la produzione e spaccio di droga. Bene: la decisione dimostra l’inutilità e quindi il danno incommensurabile della guerra, che, si è visto, non può essere vinta nemmeno dal più potente paese del mondo e i suoi alleati. Tuttavia è stata presa dal Senato Usa con la più tranquilla unilateralità, senza coinvolgere nessuno. Eppure la loro decisione impatta anche su di noi: e l’ambasciatore invece di farci lezione su come dobbiamo applicare le nostre leggi in materia finanziaria (non configura una ingerenza?) avrebbe fatto bene a dire al suo paese quali interrogativi poteva porre a un “alleato” non proprio di serie B, con le sue decisioni.
Infatti a noi ora viene da chiederci (lo accenniamo anche nella mozione che abbiamo presentato a firma Giannini, Menapace, Martone, Del Rojo): noi siamo in Afghanistan in “missione di pace”, ma ciò che ora viene configurato va ben oltre quanto abbiamo appena votato al Parlamento italiano. Che fare se l’amministrazione Usa ci chiede nuovi armamenti? Abbiamo già detto di no, ma ora questo no lo dobbiamo rafforzare, dato il mutamento della missione e la sua possibile trasformazione in una guerra esplicita e tradizionale.
Per noi a questo punto il problema -oltre alla necessità che ci vengano forniti chiarimenti sulle caratteristiche dei Mangusta e dei Dardo, che per quanto ne sappiamo sono armi di guerra e di attacco e evocano il pericolo di un cambiamento significativo della natura della missione italiana- è costituzionale ed è contenuto nella seconda parte del primo comma dell’art. 11, là dove si dice che “L’Italia ripudia la guerra”… “come strumento per la risoluzione delle controversie internazionali”. Come è noto persino in una controversia in cui avessimo ragione, non siamo legittimati a usare la guerra per risolverla.
Opporre ai nostri alleati un vincolo costituzionale è ben altro che opporre argomenti personali, eticamente magari forti ma non costituzionalmente fondati. Un vincolo formale e solenne consente di avviare un confronto preciso, anche duro, ma non offensivo né imputabile di non rispetto delle alleanze, dei patti e degli accordi: nessun patto può superare o cancellare o sospendere la Costituzione. A noi pare importante sollevare la vigenza piena dell’art. 11 dopo che esso è stato trascinato in ogni direzione. Mettere davanti all’opinione pubblica, al popolo di sinistra e di Rifondazione, una campagna di sostegno e rilancio della Costituzione appoggiata e sostenuta anche da giuristi ci sembra importante. Siamo in parecchi ad essere preoccupati del fatto che insieme alla legge elettorale si abbina sempre anche la riforma istituzionale, e la si disegna come se il referendum proposto dalla destra non fosse stato respinto con grande chiarezza e partecipazione. Vorremmo che tanta solerzia collocata a rovescio fosse invece messa in atto per cancellare l’orrenda legge 40 sulla fecondazione medicalmente assistita.
Aprire un dibattito di massa sulla Costituzione significa anche favorire una piena assunzione di continuità necessaria per rafforzare le basi storiche della nostra convivenza.
Noi crediamo anzi che sia urgente riprendere il tema della definizione di Difesa, con un dibattito che includa Allegretti, Ferrajoli, Rodotà, Di Lello, Raniero La Valle, il Comitato per la difesa e il rilancio della Costituzione. Insomma prendere l’occasione per un corposo solido rilancio della comune vita di cittadini e cittadine della nostra “Repubblica democratica fondata sul lavoro” e sui primi 11 articoli, base davvero salda, perché nemmeno la destra osò metterli in dubbio quando raccolse le firme per ottenere invece una repubblica presidenziale, respinta seccamente e non riproponibile.