Amnesty: Israele, crimini di guerra

In Libano si chiamano «danni collaterali» e in Israele «azioni terroristiche». A pochi giorni dall’inizio del parziale cessate il fuoco, l’organizzazione internazionale per i diritti umani Amnesty international ha presentato ieri un rapporto sul recente conflitto israelo-libanese. Il dossier dal titolo «Deliberata distruzione o “danni collaterali”?
Gli attacchi di Israele contro le infrastrutture civili» è un duro atto d’accusa sull’operato dell’esercito di Tel Aviv nel sud del Libano durante le scorse settimane di guerra. Secondo l’organizzazione internazionale «Israele ha portato avanti una politica di deliberata distruzione delle infrastrutture civili libanesi, comprendente anche crimini di guerra». Sempre Amnesty ritiene che «la distruzione di migliaia di abitazioni e il bombardamento di numerosi ponti, strade, cisterne e depositi di carburante sono stati parte integrante della strategia militare israeliana in Libano, piuttosto che “danni collaterali”, derivanti da attacchi legittimi contro obiettivi militari». Il documento contiene, inoltre, le prove «di distruzioni di massa, da parte dell’esercito israeliano, di interi insediamenti civili e villaggi, di attacchi contro ponti, in zone prive di alcuna apparente importanza strategica, e contro centrali di pompaggio dell’acqua, impianti per il trattamento delle acque e supermercati, nonostante sia proibito prendere di mira obiettivi indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile».
Altro dato particolarmente interessante, contenuto nel rapporto, è rappresentato dalle dichiarazioni rilasciate da rappresentanti delle forze armate di Tel Aviv dove si afferma che «la distruzione delle infrastrutture civili era obiettivo della campagna militare di Israele, per spingere il governo e la popolazione civile libanese a ribellarsi contro Hezbollah».
Immediata la smentita del governo Olmert, che sostiene di aver preso di mira solo le postazioni militari del Partito di dio e le sue strutture di appoggio. «Il danneggiamento delle infrastrutture civili – ribatte Tel Aviv – è stato il risultato della strategia di Hezbollah di usare la popolazione civile come “scudo umano”». In questo continuo batti e ribatti di dichiarazioni e accuse, si inserisce anche la ferma presa di posizione della vicesegretaria generale di Amnesty internationa, Kate Gilmore. «L’affermazione, da parte di Israele, che gli attacchi alle infrastrutture erano legali è palesemente errata. Molte delle violazioni identificate nel nostro rapporto costituiscono crimini di guerra, tra cui attacchi indiscriminati e sproporzionati. Alle vittime civili uccise sui due lati del conflitto – conclude Gilmore – va resa giustizia. La grave natura delle violazioni commesse rende urgente un’inchiesta sulla condotta di entrambe le parti». Se la tesi di Amnesty international fosse confermate da una commissione d’inchiesta delle Nazioni unite, voluta fortemente dall’organizzazione umanitaria, i responsabili dei crimini di guerra dovrebbero rispondere del loro operato davanti ad un tribunale internazionale.
Sarebbe troppo lungo riportare l’elenco delle innumervoli violazioni operate sui civili, i veri obiettivi e quelli che più pagano nei conflitti moderni, che si sono compiute nel mese di guerra appena concluso. Ma una città merita di essere ricordata: Qana. Dove, lo scorso 30 luglio, dopo un bombardamento dell’aviazione israeliana sono rimasti uccisi 57 civili di cui 37 bambini. Ci sarà mai un processo nei confronti dei responsabili di questa strage? Il sospetto, confermato da tanti precedenti, è quello che quando ha compiere i «danni collaterali» sono dei paesi democratici, la giustizia segna una battuta d’arresto. Altrimenti, non si spiegherebbe il perchè ad oggi nessun processo è stato mai intentato contro i comandanti, militari o politici, della Nato responsabili dell’aggressione alla Serbia nel 1999 (a cui partecipò anche l’Italia con il governo D’Alema). Oppure nei confronti degli Usa impegnati nelle guerre in Afghanistan e Iraq, dove un’infinità di civili sono morti e continuano a morire di «danni collaterali».