A Monfalcone ho conosciuto una donna di Plaza de Mayo. Si chiama Rita e suo marito non è stato vittima della dittatura militare argentina. E tantomeno è un desaparecido. Gualtiero è crepato di cancro a soli cinquantatre anni la vigilia di Natale del ’98 dopo aver regalato i polmoni ai cantieri navali per un milione e mezzo al mese; ora riposa in cimitero accanto alle altre 500 vittime dell’amianto, in attesa delle centinaia che ancora mancano all’appello. Ho conosciuto la vedova Nardi in una stanzetta dell’ospedale di Monfalcone dove ha sede l’Associazione Esposti Amianto.
“Anche quando lui era ancora vivo, me lo vedo ancora seduto sulla poltrona, lo guardavo in quelle condizioni, lo fissavo e gli dicevo: quando non ci sarai più qualcuno ti dovrà difendere. E’ una cosa che gli ho promesso, non avrò pace fino a quando non ci sarà giustizia per tutti questi morti. Proprio come i desaparecidos argentini, anche i nostri morti per amianto sono vittime innocenti di un’insopportabile ingiustizia che pone i valori del mercato e del profitto al di sopra di qualsiasi altra considerazione, compreso il diritto alla salute e alla vita delle persone. Quello che chiediamo è che mio marito e tutti quelli che come lui sono morti possano avere il rispetto e la dignità di persone”.
Rita sa quello che dice e cosa le riserverà il futuro. Una delegazione di madri di Plaza de Mayo si è recata a Monfalcone a incontrare le vedove dell’amianto. Si sono abbracciate. Si sono riconosciute. Come i generali argentini, anche i signori dell’amianto ora hanno a che fare con un movimento di donne che non smetterà mai di lottare per la verità e la giustizia. In quella stanzetta non c’ero arrivato per caso. Il Consorzio Culturale del monfalconese aveva chiesto a una serie di autori di scrivere un racconto sul territorio da pubblicare, poi, sulla propria rivista. Una mail spedita da un parente di un malato terminale mi aveva segnalato il caso amianto. Non ne avevo mai sentito parlare prima. E poi mi era stato spedito un libro di Alessandro Morena: Polvere, recensito sul manifesto da Gabriele Polo il 18 gennaio. Un documento agghiacciante che prova in modo inoppugnabile e scientifico che gli operai dei cantieri e la popolazione della città sono stati vittime di un crimine di pace. Una strage coperta da silenzi assolutamente colpevoli.
Dagli anni Quaranta erano noti gli effetti mortali dell’amianto eppure i lavoratori non erano mai stati informati dei rischi, al punto che nei momenti di pausa scherzavano lanciandosi addosso palle di amianto come palle di neve, oppure riposavano coprendosi con sacchi di amianto per proteggersi dal freddo. Anche chi non trattava direttamente l’amianto ne respirava la polvere. Addirittura le donne che lavavano le tute dei mariti si riempivano i polmoni delle fibre che come aghi si piantavano nella pleure e intorno ad essi crescevano dei fiori di carne. Malata. Marcia. Ai cantieri non c’erano aspiratori e le maestranze non erano munite di guanti e mascherine. In realtà avrebbero dovuto usare degli scafandri come quelli che usano i dipendenti delle ditte che oggi bonificano l’amianto fuorilegge. Ma informare e proteggere i lavoratori dei cantieri avrebbe significato un aumento dei costi e un rallentamento oggettivo dei tempi di lavoro. Ma soprattutto avrebbe significato rinunciare all’amianto, il miglior termodispersore sulla faccia della terra.
Il calcolo è stato semplice: costa meno risarcire un operaio malato o morto che salvargli i polmoni perché il mesotelioma ha un’incubazione di 10/20 anni e spesso anche più lunga. E il decorso della malattia conclamata è anch’esso lungo. Abbastanza per arrivare alla pensione, quindi. Le vedove si sono presentate davanti ai cantieri e hanno raccolto testimonianze. Si sono costituite parte civile, il meccanismo della giustizia si è messo in moto e alla fine, con ogni probabilità, si arriverà a un giudizio. Una battaglia difficile ma che non si può perdere. Da una parte i cantieri, dall’altra i morti e i malati. Ci sarà il solito balletto di perizie. L’osceno rimpallarsi delle responsabilità. Gli immancabili: non sapevamo. E poi la sentenza. Come dicono sempre le madri di Plaza de Mayo, il capitalismo prima ti ammazza e poi ti risarcisce. Sono arrivato a Monfalcone sapendo tutto questo, profondamente indignato e deciso a scrivere su questo crimine di pace. Un racconto incentrato sulla memoria e sulla necessità di appoggiare la lotta delle vedove. Quello che ignoravo è che la memoria e le vittime sono solo un aspetto della tragedia monfalconese. Il professor Bianchi, un signore gentile dai capelli bianchi che ha dedicato la sua vita umana e professionale a dimostrare gli effetti mortali dell’amianto, osteggiato, deriso e minacciato da tutti coloro che avevano interesse a impedire che si conoscesse la verità, mi ha spiegato che a Monfalcone si continuerà a morire d’amianto fino al 2020. E che il mesotelioma è una forma tumorale così rara (un caso ogni milione di persone) che nessuno si sogna di stanziare fondi per studiarla e tentare di contrastarla efficacemente. Solo che a Monfalcone ne sono già morti 500 e non si ha idea di quanti saranno nei prossimi anni.
Parlando con i parenti delle vittime e dei malati ho scoperto che di tumore d’amianto si muore soffocati. Una fine orribile. E per nulla dignitosa. In Europa nei prossimi trent’anni moriranno così in 250.000. E in Italia a Padova, Foggia, Milano, Brindisi… E’ evidente che il crimine di pace dei cantieri di Monfalcone non è terminato con la messa fuorilegge dell’amianto. E’ in atto ancora oggi nei confronti di quelli che sono ancora vivi e di cui nessuno si occupa. I malati e quelli che si ammaleranno. Un fatalismo degno di quelli che in nome del profitto hanno riempito i loro polmoni di polvere d’amianto ma che noi non possiamo accettare. E l’indignazione non basta. Ho conosciuto due di loro. Duilio Castelli, presidente dell’Associazione Esposti Amianto e Guido Tonzar che, già malato, per uno straccio di pensione è stato costretto a rimanere nei cantieri altri due anni. Ho stretto loro la mano e ho ascoltato le loro storie. Coraggiosi e indomiti. Come la vedova Nardi. In queste persone ho riconosciuto la parte migliore di quello che siamo e che siamo stati. Compagni. Abbandonarli a una dimensione di solidarietà e lotta limitati al territorio sarebbe immorale oltre che terribilmente ingiusto. Anche politicamente.
Al di là del processo, Monfalcone è una battaglia che si può vincere. Per la memoria di quelli che si sono fottuti i polmoni per un salario di merda. E per quelli che hanno diritto a un’esistenza giusta e dignitosa.