George Bush parla sempre meno d’Iraq. Anche lui si rende conto che ogni volta che ripete di «mantenere la rotta» o che le cose vanno bene e presto gli iracheni potranno «difendersi da soli», quelli che ci credevano restano delusi e quelli che delusi già lo erano diventano arrabbiati. Gli effetti di questa guerra, nata su un castello di menzogne e condotta all’insegna dell’incompetenza, si fanno sentire sempre più e mettono a nudo tutte le ferite provocate nell’intero corpo sociale americano, per non parlare dei «valori» di cui i bravi cittadini erano abituati ad andare fieri. L’America di oggi, sotto la «cura Bush», è il Paese in cui i poveri aumentano, in cui coloro che godono di assistenza medica diminuiscono, in cui il carico di debito pubblico che pesa su ogni cittadino è il più alto di tutta la storia e in cui le incertezza diventano incubi e la consapevolezza che l’inconcepibile impreparazione messa in mostra l’anno scorso è ancora tutta lì, intatta.
Ci sono tante di quelle macerie attorno a questa presidenza che perfino i «geniali» strateghi di Bush non sanno più che cosa escogitare. L’ultima loro trovata, quella di riesumare il bando ai matrimoni gay che dopo averlo agitato in campagna elettorale era stato rapidamente archiviato a elezione ottenuta, proprio ieri è miseramente finito prima ancora di cominciare. Il favore dei due terzi del Senato, indispensabile affinché la procedura dell’emendamento costituzionale potesse intraprendere il suo iter, è mancato e l’unica cosa su cui Bush e i (non molti) repubblicani che lo hanno seguito su questa strada possono sperare è che la parte più retriva della loro base si lasci ancora una volta prendere in giro.
Ma forse il segno più tangibile dello sgretolamento è proprio il fatto che ormai sono davvero pochi quelli che ancora seguono Bush, mentre sono in forte aumento quelli che non temono più l’accusa di «antipatriottismo». Anni fa, per apprezzare la denuncia delle nefandezze di Bush contenuta nel film di Michael Moore bisognava superare una specie di senso di colpa («mio Dio, sarò mica dalla parte dei terroristi?»), oggi la ricerca di quelle nefandezze è diventata aperto terreno di caccia. Nascono da qui le rivelazioni sulla strage di Haditha, sul cui destino ieri sono stati resi noti dall’IPS dei particolari agghiaccianti: che prima della strage i soldati americani avevano bloccato la corrente elettrica e l’acqua e avevano distrutto la farmacia; che ancora un mese prima della strage era stato occupato l’ospedale per sette giorni («una gravissima violazione della Convenzione di Ginevra», dice il dottor Salam Ishmael); che tutte le attrezzature erano state distrutte e che un paziente era stato ammazzato nel suo letto. E nasce da qui il reportage che USA Today ha dedicato ieri ai soldati che tornano dall’Iraq con turbe mentali. Sono uno su dieci, raccontano al giornale i medici che li esaminano al ritorno, ricordando che in base alla «turnazione» sono almeno 500.000 i soldati che hanno «servito» laggiù, sicché è stato creato un potenziale di 50.000 giovani trasformati in spostati, ma siccome al rientro non presentano ferite «visibili» il loro problema è stato a lungo ignorato.
E nasce da qui, infine, una storia come quella raccontata da «The War Tapes», un documentario (è appena stato premiato al TriBeCa Festival) girato da tre soldati che portavano la loro telecamera dovunque venissero destinati: una cosa molto più pregnante dei reportage dei giornalisti embedded, sebbene anche la loro attività, come dimostrano gli oltre sessanta morti, in una guerra come questa ha aumentato la pericolosità in modo esponenziale. Si vedono cose orribili: una bomba che esplode sotto a una jeep; un raid in una casa con relativo scontro a fuoco e due «insurgent» abbattuti davanti alla telecamera; una donna irachena investita da una jeep e tagliata di netto in due tronconi, e anche la difficoltà di «restare se stessi» in una situazione simile. Non ci riesce un soldato che, alla vista di cani che si cibano con le carni di un uomo appena ucciso, dice tranquillo: «Così avranno la pancia piena». Ci riesce invece un altro soldato che, parlando del «che facciamo qui», se n’esce con un «Siamo venuti per liberarli e invece li ammazziamo».