Decine di milioni di poveri, disciminazioni razziali, welfare a pezzi.
Impietoso bilancio dell’era Bush nel rapporto Onu sullo sviluppo
Il britannico Indipendent l’ha definita una vera e propria vendetta. Certo che la rotta imboccata quest’anno dal Rapporto sullo sviluppo umano stilato dall’Undp (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sviluppo) porta dritta dritta alla collisione con l’attuale inquilino della Casa bianca che da tempo si propone di sostituire il multilateralismo dell’Onu con la sua ricetta a base di crescita e libero mercato. Concentrando l’attenzione dei suoi ricercatori sul problema delle disuguaglianze, il Palazzo di vetro si prende la sua rivincita alla vigilia dei festeggiamenti per il sessantesimo anniversario. E che rivincita, viene da dire leggendo le parole insolitamente dure scritte da Kevin Watkins, attuale direttore dello “Human Development Report Office” con un passato in Oxfam. Senza mezzi termini Watkins accusa gli Stati Uniti di essersi «eccessivamente concentrati sulla strategia militare a scapito di quella per la sicurezza umana» e invita l’attuale leadership a «sviluppare prima possibile una struttura collettiva di sicurezza che vada oltre la risposta militare al terrorismo perché povertà e degrado sociale sono componenti essenziali della minaccia alla sicurezza globale».
Se la scelta di concentrarsi sulla misurazione delle ineguaglianze è già rivelatrice di un approccio critico – ovvero: per sradicare la povertà non basta la crescita economica – i dati che vengono fuori dal rapporto fanno accapponare la pelle, e forniscono una griglia di lettura per le immagini apocalittiche che provengono da New Orleans. Dal 2000 a oggi, le sacche di povertà del miracolo americano si sono progressivamente trasformate in una voragine che naturalmente risucchia soprattutto vecchie e nuove minoranze. E’ dal 2000 infatti che il declino della mortalità infantile, continuato negli States per oltre mezzo secolo, ha subito una netta inversione di tendenza e ha finito col posizionare il paese sugli stessi valori medi della Malesia.
Paradossalmente, malgrado gli Stati Uniti siano al primo posto del mondo per la spesa sanitaria (il doppio della spesa pro-capite media degli altri paesi dell’Oecd) hanno accesso alle cure soprattutto i bianchi benestanti, con una sproporzione che condanna le classi meno abbienti – in massima parte non bianche – a condizioni da Terzo mondo. Un bambino che ha avuto la fortuna di nascere in una famiglia che fa parte del 5 per cento di ricchi, ad esempio, è destinato a vivere il 25 per cento in più di chi nasce nel 5 per cento più povero. Ecco spiegato perché il tasso di mortalità infantile statunitense è lo stesso della Malesia, che registra un quarto del reddito medio americano.
E stiamo parlando di medie. Se poi ci inoltriamo nella mai risolta questione razziale, ecco che i dati sono ancora più spaventosi. Fra la popolazione nera di Washington Dc, ricca capitale dell’impero globale, si registra un tasso di mortalità infantile più alto che in Kerala, stato meridionale della federazione indiana che certo non naviga nell’oro. Negli Stati Uniti la salute dipende dal reddito e dalla razza, e una madre nera ha il doppio delle probabilità di dare vita a un bambino sottopeso e di vederselo morire entro il primo anno rispetto a una donna bianca. Del resto come potrebbe essere altrimenti? Gli Stati Uniti sono l’unico paese ricco a non avere un sistema sanitario universale. L’assistenza medica è riservata a chi ha un lavoro mentre la copertura pubblica – notoriamente di scarsissimo livello – non raggiunge certo tutti cittadini. Una persona su sei non gode infatti di alcuna copertura e un terzo delle famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà non hanno accesso all’assistenza medica. Il tutto naturalmente ricalca in pieno le differenze etniche. Infatti appena il 13 per cento dei bianchi non sono assicurati, contro il 21 per cento dei neri e il 34 per cento degli ispanici che soffrono, oltre alla discriminazione razziale, anche la condizione precaria della migrazione. E nascere in una famiglia priva di copertura sanitaria aumenta del 50 per cento la possibilità che i nuovi nati non raggiungano l’età adulta, cosa abbastanza logica visto che chi non ha copertura sanitaria è in genere disoccupato o sotto-occupato, e non ha quindi nemmeno i soldi per pagare una visita medica o per comprare le medicine prescritte. Se il gap sanitario fra bianchi e neri fosse eliminato – calcola l’Undp – ogni anno potrebbero venire salvate circa 85 mila persone: una cifra sorprendente se si pensa che i progressi nel campo della tecnologia medica consentono di salvarne appena 20 mila.
Del resto non è soltanto sulle questioni sanitarie che gli Stati Uniti rasentano cifre da Terzo mondo. La povertà infantile, uno dei parametri per misurare la povertà nei paesi ricchi, ha superato di netto il 20 per cento, primato che colloca gli Usa in compagnia del Messico. Al contrario la Gran Bretagna, che alla fine degli anni Novanta registrava il più alto tasso europeo di povertà infantile, è riuscita a invertire la tendenza attraverso una politica di crediti fiscali e sovvenzioni, ed è proprio smantellando simili misure che Bush e compagnia hanno ottenuto l’esatto contrario.
Comunque, al di là della salutare bacchettata all’attuale amministrazione, il rapporto Undp potrebbe avere ripercussioni più ampie se riuscisse a traghettare le agenzie delle Nazioni Unite al di fuori della sbornia liberista degli scorsi anni. Finalmente ci si comincia a rendere conto che la crescita e il libero mercato non bastano a eliminare la povertà se prima non si mette mano alle disparità e alle ineguaglianze, un messaggio che suona particolarmente sgradevole all’orecchio di Bolton e dei neo-con. Del resto non c’è bisogno di guardare alla ricca america per rendersene conto: India e Cina hanno avuto molto successo nel creare ricchezza ma i governi di questi due paesi non sono stati così efficienti nel ridistribuirla, motivo per cui – sottolinea il rapporto – l’attesa riduzione della mortalità infantile non c’è stata. Lo sganciamento fra crescita e mortalità infantile è dimostrato dal successo del Bangladesh che ha fatto notevolmente meglio dell’India, pur vantando un tasso di crescita economica di gran lunga inferiore. Sembra insomma che il conflitto con l’attuale amministrazione sia salutare se finalmente anche i ricercatori delle Nazioni Unite dicono a chiare lettere ciò che il movimento dei movimenti sostiene da anni: finché non verrà affrontato il problema della disuguaglianza (sociale, razziale, di genere o quant’altro) gli Obiettivi del millennio non hanno proprio alcuna speranza di venire raggiunti.