AMENDOLA, UN’ ISOLA DI LIBERTÀ

Ho conosciuto Giorgio Amendola, di cui oggi ricorre il centenario della nascita (era nato a Roma il 21 novembre 1907), proprio all’inizio del mio lavoro di studio e di politica. Già nel 1975, quando aveva concesso un’interessante Intervista sull’antifascismo a Piero Melograni (Laterza), Amendola aveva citato positivamente il mio libro su Carlo Rosselli del 1968 (sempre Laterza) e sottolineato l’interesse culturale e politico di ricostruire la storia di «Giustizia e Libertà», il movimento più vicino ai comunisti, pur con indubbi contrasti, nella lotta intransigente contro il regime fascista.
Due anni dopo, mi aveva inviato il suo volume sul Pci nell’Italia repubblicana (Editori Riuniti) sollecitando, con una dedica, il mio giudizio critico. Ancora in quel periodo, vicino alla sua morte avvenuta il 15 giugno 1980, a Roma, in un’atmosfera cupa determinata dal rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro (16 marzo – 9 aprile 1978), aveva presentato ai lettori i primi volumi del Mondo contemporaneo edito dalla Nuova Italia e da Laterza. Un’amicizia, insomma, legata ai profondi interessi che avevamo entrambi per la storia d’Italia e del movimento operaio italiano ed europeo. E così lo ricordo, ora che ne rievochiamo l’opera e la personalità straordinaria, in quella duplice veste di intellettuale e politico.
Figlio di Giovanni Amendola, liberale antifascista, morto a Cannes per le percosse subite da parte di squadre fasciste in Italia, aveva come molti giovani meridionali (ci fu anche mio padre tra loro), delusi dalla facile vittoria di Mussolini e dalla scarsa resistenza di tanti liberali e democratici nell’Italia liberale, optato, nel 1929, per il Partito comunista che aveva organizzato subito la lotta clandestina contro la dittatura. Seguirono, per lui come tanti altri, il carcere e il confino a Ponza, dal 1932 al 1937, fino al ritorno in Italia e alla Resistenza nel Nord come ispettore nell’Italia occupata. Le sue Lettere a Milano, uscite nel 1973, sono un documento eccezionale degli episodi e dell’atmosfera in cui il movimento partigiano si era organizzato e aveva agito fino all’insurrezione dell’aprile 1945 in cui grandi città del Nord, a cominciare da Torino e Milano, erano state liberate, prima o contemporaneamente, all’arrivo delle truppe alleate angloamericane. Di Amendola in quegli anni emergevano già due aspetti che avrebbero sempre distinto la sua linea politica di fondo. E che potremmo riassumere in due parole: unità
e identità.
Da una parte, la volontà di coinvolgere tutte le altre forze antifasciste, socialisti, cattolici democratici e giellisti, nella lotta partigiana contro i nazisti e i fascisti della Repubblica Sociale.
Dall’altra, la rivendicazione aperta della storia del movimento comunista che, soprattutto dopo il congresso di Lione e la vittoria della linea elaborata da Antonio Gramsci (di cui il giovane Amendola condivise le tesi sulla questione meridionale) aveva perseguito con coerenza. Non a caso fu proprio lui, nel marzo 1943, a firmare il Patto di Unità d’Azione con il Partito socialista e Giustizia e Libertà nella lotta prima clandestina, poi armata contro il fascismo ormai in crisi e destinato, tre mesi dopo, a crollare nella seduta del Gran Consiglio del fascismo il 25 luglio 1943. Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Parri e nel primo governo De Gasperi, Amendola torma al lavoro parlamentare e di partito con la cacciata dal governo dei comunisti e dei socialisti nella primavera del 1947 e, da allora, conduce una battaglia caratterizzata dalle due parole d’ordine di unità e di identità. Anche nell’ultimo periodo della sua esistenza in cui scrive i suoi libri autobiografici (come Una scelta di vita del 1978 e Un’isola del 1980) o storico-politici (come Comunismo, antifascismo e resistenza, 1967) Amendola non rinnega nulla della sua vita, come della battaglia antifascista del movimento comunista meridionale (di cui fu a lungo leader indiscusso) ma insiste tenacemente sui motivi di fondo del suo agire politico. Nel 1964 nel Pci si presentano due indirizzi differenti per l’elezione del presidente della repubblica dopo il settennato di Giovanni Gronchi: Amendola si batte perché tutte le forze di sinistra e di centro sostengano Saragat; Ingrao, invece, vuol far eleggere Fanfani. Alla vigilia di quell’elezione il leader meridionale propose la nascita di un partito unico dei lavoratori in cui si fossero sciolti il Pci, il Psi, il Psdi e il Psiup. Ma la sua proposta non ottenne la maggioranza né nel suo partito né negli altri partiti interessati.
Era troppo presto per scelte così nette e la centralità della guerra fredda divideva ancora le forze di origine e formazione socialista, impedendo l’operazione a cui Amendola pensava fin dagli anni della lotta antifascista e della Resistenza. Dopo quel tentativo, il leader comunista rinunciò a riproporre svolte che la sinistra interna non avrebbe mai accettato. Del resto le successive vicende all’interno del partito videro sempre la vittoria di una corrente centrista da cui anche Enrico Berlinguer emerse nel 1968, quando si trattò di eleggere un segretario che ereditasse la linea del «partito nuovo» di Palmiro Togliatti.
Ma Amendola, nei decenni successivi, continuò ad avere un ruolo importante nella battaglia meridionalistica che il Pci condusse ininterrottamente nell’Italia repubblicana, prima criticando il clientelismo democristiano ma mettendo in evidenza i progressi della Cassa del Mezzogiorno e della riforma agraria nei primi anni, quindi cercando di proporre riforme più incisive nel periodo successivo. Certo, non ci fu la capacità di imporre dall’opposizione misure decisive per il superamento del divario tra Nord e Sud e nella lotta contro la mafia i comunisti non riuscirono ad invertire l’indirizzo moderato (per non dire collusivo) del partito cattolico.
Ma Amendola ebbe sempre chiara la diagnosi di fondo sugli obbiettivi che le forze di origine socialista e democratica avrebbero dovuto perseguire nel cammino della sinistra a proposito del Mezzogiorno. Fu sconfitto all’interno del suo partito ancor prima che fuori di esso e ne fu sempre consapevole.
A pensarci bene, la scelta di passare gli ultimi anni della sua vita a scrivere del passato e della sua vita corrispose anche alla coscienza di non poter più influire in maniera determinante sul cammino del «partito nuovo» che aveva contribuito a costruire negli anni della lotta antifascista e resistenziale.
Forse è troppo scrivere, come qualcuno pure ha fatto, che la sua politica precorse in qualche modo l’Ulivo ma si può dire dal punto di vista storico, che la sua tensione unitaria andava di necessità in quella direzione.
Cioè nell’obbiettivo (più che mai attuale oggi) di raccogliere insieme tutte le forze democratiche decise a creare, anzitutto in Italia, un paese più giusto e più avanzato nei diritti e nelle libertà di tutti.