All’incrocio tra Keynes e l’economia del benessere

A distanza di vent’anni dalla scomparsa di Federico Caffè, la sua eredità intellettuale resta quanto mai feconda e utile per interpretare la situazione economica e sociale. Anzi, per molti aspetti, le sue analisi, e purtroppo anche i suoi timori, hanno avuto un carattere premonitore. Come ben ci ricorda il volume edito da il manifesto, Caffè aveva messo in guardia contro diversi rischi presenti nel dibattito e nelle scelte di politica economica, rischi che negli ultimi anni si sono aggravati; la mia impressione è che, complessivamente, quest’ultimo ventennio non gli sarebbe piaciuto molto.
Caffè credeva fondamentalmente nel diritto-dovere degli uomini di organizzare fattivamente la propria convivenza sociale senza cadere vittima della soggezione verso presunte leggi naturali; da qui la convinzione del ruolo della politica economica quale strumento indispensabile della collettività organizzata per regolare i cosiddetti automatismi, falsamente neutrali, del mercato. Da qui, ancora, la sua preoccupazione per le tendenze neoliberiste, che pur traendo conforto da alcune esperienze negative dell’intervento pubblico, ma quasi ignorando il consolidato dibattito teorico sui fallimenti del mercato, escludono la possibilità di interventi discrezionali se non al prezzo di peggioramenti economici e sociali.
Scriveva Caffè: «Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio». E ancora: «La recente ondata neoliberista sta ad indicare in quale misura inconvenienti rilevabili sul piano storico, nell’intervento pubblico dell’economia, stiano riproducendo superate ed anacronistiche questioni di principio» (Note economiche ’79).
Queste posizioni di Caffè non avevano niente a che fare con modelli statalisti o pregiudizialmente contrari al mercato; derivavano invece dal modo in cui aveva coniugato la sua umanità con i due grandi filoni di teoria economica a cui più si era dedicato come studioso: l’economia del benessere e l’economia keynesiana.
Credo che queste due correnti del pensiero economico – in particolare i contributi dell’economia del benessere all’analisi dei rapporti stato-mercato – siano colpevolmente sottovalutati. La qual cosa colpisce specialmente da parte della sinistra dove in presenza di una evidente crisi dei suoi tradizionali punti di riferimento culturali, si è assistito ad un generico ed indiscriminato recupero di valori di altre tradizioni politiche e di pensiero; ma senza badare come anche in quelle si era e si continua ad andare avanti rispetto alle «anacronistiche questioni di principio» che sono riemerse con toni allarmistici, ma senza il supporto di giustificazioni analitiche significative ed effettivamente nuove. Questa deriva era stata paventata da Caffè: «Nel lavoro scientifico, le difficoltà maggiori sorgeranno non tanto dallo sforzo di progettualità innovativa da compiersi per la realizzazione di un intervento pubblico efficiente; quanto dal vigile spirito critico necessario nell’esame metodico delle rielaborazioni, politicamente pressanti o filosoficamente accattivanti, di idee vecchie» (Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali, 1985).
La passione per i bisogni dell’uomo e il rigore dello studioso che animavano Caffè spiegano il grande interesse che egli attribuiva ai problemi della disoccupazione e al Welfare State, altri due temi su cui, ancora una volta, il dibattito successivo alla sua scomparsa sembra tornato indietro.
In entrambi i casi era grande e inevitabile il ruolo che Caffè attribuiva alla politica economica e all’intervento pubblico. Ed è proprio con riferimento al dibattito su queste due questioni cruciali che egli già denunciava l’allarmismo economico usato strumentalmente per sopperire, da un lato, alla mancanza di argomentazioni scientificamente risolutive per giustificare il ritorno indiscriminato agli automatismi del mercato e, dall’altro, alla colpevole sottovalutazione dei danni non solo economici della disoccupazione e dell’insicurezza sociale. Per Caffè era un risultato consolidato della letteratura economica che …«il problema dello stato garante del benessere sociale (poiché un problema indubbiamente esiste) sia quello della sua mancata realizzazione; non già quello del suo declino, o del suo superamento». (La fine del Welfare State, 1986).
Caffè non era né pensava di essere un rivoluzionario; si «accontentava» di essere un riformista la cui lezione, tuttavia, risulta quanto mai attuale a fronte della crescente diffusione di «conformismo e saggezza convenzionale»; queste sono due sue espressioni con le quali identificava gli atteggiamenti culturali più pericolosi in quanto fanno da copertura intellettuale a chi si oppone al prevalere delle idee sugli interessi.