All’Est si fa business per necessità

«Sì, oggi gli indicatori ci dicono che in Europa dell’Est c’è un grande fermento imprenditoriale. Miriadi di piccole imprese. È vero. Ma è altrettanto vero che poche di queste attività possono essere definite dei pilastri delle nuove economie di mercato». Professore all’Università di Liverpool specializzato in sociologia del lavoro e autore di fondamentali inchieste sull’occupazione giovanile in Gran Bretagna negli anni Settanta, Kenneth Roberts, ieri a Milano è stato relatore al seminario promosso da Unidea su Imprenditorialità giovanile e sviluppo locale nell’Europa dell’Est. E non nasconde il suo pessimismo sugli effetti benefici dell’irruzione dell’economia di mercato nell’Europa centro-orientale. Anche nei paesi che sono da poco entrati nell’Unione.

La sua relazione alla giornata di studio ruota attorno al concetto di “youth self-employment”. Ma l’auto-impiego è una soluzione reale alla disoccupazione nell’Europa dell’Est e nei Balcani?

Potrebbe esserlo, ma solo se si arrivasse alla creazione di imprese di piccolo e medio calibro che abbiano realmente ‘successo’ sul mercato, e che siano di conseguenza in grado di generare posti di lavoro, dando impieghi stabili ai giovani (e meno giovani) disoccupati. Per il momento, però, non sembra che le micro-imprese che spuntano come funghi nell’Europa dell’Est rappresentino un’alternativa reale per l’occupazione: sono piccole, anzi minuscole, ed estremamente fragili. Vulnerabili alla massiccia competizione esterna, molto spesso non vanno al di là dei confini locali. Più che creare nuovi posti di lavoro, si limitano a tamponare la disoccupazione, in molti casi non hanno alcun dipendente, quasi sempre non producono alcuna stabilità e sono totalmente sprovviste di garanzie sociali (specie per i giovanissimi e le donne). Di carriera, ovviamente, neanche a parlarne. No, non è realistico pensare di trasformare la maggior parte dei disoccupati in imprenditori di successo.

Ma alcune di queste giovani imprese riescono ad imporsi sul mercato?

Molto poche, per ora, e certo non in numero tale dal rappresentare una risposta agli alti tassi di disoccupazione. Secondo le nostre ricerche, appena il 7-9% dei giovani imprenditori intorno ai 25 anni ce la fanno. Eppure, in alcune zone la percentuale di auto-impiegati è talmente alta da costituire la principale attività economica. Gli indicatori, insomma, possono essere ingannevoli: segnalano come sviluppo imprenditoriale quello che in realtà è business per necessità. È quello che chiamiamo “auto-impiego o imprenditoria di sopravvivenza”. La riprova e che per molti di questi neo-imprenditori l’attività avviata non è l’unica fonte di reddito. I giovani tentano di guadagnare contando solo sulle proprie forze, non tanto per innato spirito di intrapresa, ma soprattutto perché non riescono a trovare lavori adeguati. Davvero pochi possono sperare di riuscire: in fondo stanno cercando di vendere beni e servizi a loro concittadini altrettanto poveri.

Lei dice che la nuova imprenditoria esteuropea è fragile anche perché subisce una forte concorrenza esterna…

Fin dal crollo del Muro è cominciata la corsa a investire nell’Europa centrale e orientale, e gli investimenti stranieri continuano ad affluire: avrebbero dovuto creare opportunità di lavoro a livello locale e incentivare lo sviluppo delle nuove imprese, ma troppo spesso sono serviti a costruire delle “cattedrali nel deserto”. Forse bisognerebbe trovare la strada per incoraggiare i grandi gruppi a servirsi della rete di piccole imprese locali come fornitori ed erogatori di servizi. Ma soprattutto bisognerebbe porsi il problema di come creare un’economia di mercato che favorisca e non leda la coesione sociale e lo sviluppo locale.

A dispetto degli alti tassi di crescita economica, dunque, l’Europa dell’Est sconta forti squilibri?

In alcune zone, fortissimi. Ad esempio dove le industrie che hanno chiuso i battenti non sono state rimpiazzate da altre attività. Ma anche dove il Pil aumenta non sempre la crescita economica va di pari passo con l’occupazione, come del resto si evince anche dall’ultimo rapporto dell’ILO (International Labour Organization) sulla disoccupazione globale, ovunque in preoccupante aumento. È una situazione che finisce col produrre squilibri a livello locale potenzialmente devastanti sul piano sociale. E rischia di creare preoccupanti sacche di povertà anche nella nuova Europa allargata.