Alleati Usa si smarcano

Lo tsunami provocato nell’intera area mediorentale dall’amministrazione Bush con l’invasione dell’Iraq, il tentativo di chiudere la questione palestinese riconoscendo l’annessione definitiva israeliana della West Bank – tranne che delle zone ad «alta densità araba» destinate a diventare isole-ghetti – e delle alture del Golan siriano, oltre che con il progetto di espellere dal governo libanese e disarmare gli Hezbollah e con il tentativo di balcanizzare la Siria su basi etnico-confessionali, rischia ora di travolgere anche gli alleati locali degli apprendisti stregoni americani che l’hanno evocato La situazione è giunta ad un tale livello di pericolosità che tre dei più importanti paesi della regione alleati degli Usa, Arabia Saudita, Egitto e Turchia hanno rotto gli indugi cercando di invertire quel devastante processo di «distruzione creativa» della regione.

Il primo ministro turco Tayyeb Erdogan, giovedì scorso, incontrando il ministro degli esteri britannico, Jack Straw, ha così dichiarato senza mezzi termini che il suo paese respinge qualsiasi complotto straniero che abbia per oggetto cambiamenti di regime in Siria o in Iran e ha rilanciato nelle ultime settimane la cooperazione economica, culturale e politica con Damasco. Arabia Saudita ed Egitto – già in fibrillazione per la triste sorte dei sunniti iracheni – stanno cercando ora di «raffreddare» i due fronte più caldi, quello palestinese-israeliano e quello libano-siriano. La difficile missione è stata affidata al generale Omar Suleyman, capo dei servizi di sicurezza egiziani, ieri a Damasco – dove ha incontrato il presidente Bashar e il leader di Hamas, Khaled Meshal – e oggi in Libano, per poi tornare precipitosamente al Cairo mercoledì dove dovrebbero arrivare sia il presidente palestinese Abu Mazen, sia lo stesso Khaled Meshal, sia il neo-ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni.

Sul fronte siro-libanese l’esponente dei servizi egiziani sarebbe latore di una proposta di mediazione saudita ed egiziana tesa ad evitare un ulteriore peggioramento dei rapporti tra Beirut e Damasco e, così facendo, un’uscita dal governo dei rappresentanti del «blocco della resistenza», composto da Hezbollah ( per la prima volta nell’esecutivo) e da Amal, i due partiti della comunità sciita libanese. Questi hanno congelato da alcune settimane la loro partecipazione al governo di fronte ad un colpo di mano con il quale il premier Fouad Siniora – vicino alla Hariri Inc. – ha fatto approvare a maggioranza una richiesta – patrocinata da Usa e Francia – per il deferimento ad un tribunale internazionale di eventuali accusati per l’uccisione dell’ex premier Rafiq Hariri. In altri termini la rottura c’è stata, sia sul tentativo di Usa e Francia di arrivare, tramite la screditata commissione di inchiesta dell’Onu sulla morte di Hariri, ad accusare direttamente i vertici dello stato siriano, per promuovere un cambio di regime a Damasco, sia su quello di escludere Hezbollah dal processo decisionale in modo da arrivare ad un disarmo della resistenza libanese e di quella palestinese. Il tutto in vista di un trattato di pace separato tra il Libano e Israele indipendentemente dal ritiro israeliano dalla Palestina e dal Golan e di uno smantellamento dei campi profughi palestinesi.

Un progetto pericolosissimo che ha visto il paese dei cedri scivolare verso un nuovo devastante conflitto interno nel quale si preparano ad entrare da protagonisti i movimenti estremisti islamici sunniti, spesso sostenuti – in funzione anti-sciita – anche dal fronte politico amerikano che va dal blocco Hariri, attorno al figlio dell’immobiliarista libanese ucciso, al leader druso Jumblatt e alle destre falangiste di Geagea. Per il momento l’operazione non è andata in porto per la scesa in campo dell’ex generale cristiano-maronita-antisiriano Aoun, il più votato della sua comunità alle ultime elezioni, che ha sparigliato le carte etnico-confessionali sostenendo la necessità di una nuova «unità nazionale» sunniti-sciiti-cristiani e di una intesa di buon vicinato con la Siria. Su questa scia è partita una mediazione saudita ed egiziana tesa a «congelare» il problema del disarmo della resistenza, ad «aspettare» le conclusioni dell’inchiesta sulla morte di Hariri, a marcare il confine tra i due paesi, a far si che il Libano non sia più una base per i tentativi di destabilizzazione di Damasco. Usa, Francia e Italia – nella persona del sottosegretario Margherita Boniver – stanno facendo il possibile per far fallire la mediazione saudita, insieme al leader druso Walid Jumblatt, ma Saad Hariri sarebbe comunque tentato da un accordo che gli permetterebbe di porre fine al suo esilio in Arabia saudita e ne avrebbe parlato a lungo ieri con Geroge Bush. Reduce dalla missione a Damasco e Beirut il generale egiziano Omar Suleyman tornerà domani al Cairo per preparare il vertice tra il presidente palestinese Abu Mazen e il leader di Hamas, Khaled Meshal, che dovrebbe raggiungere la capitale egiziana nelle prossime ore. E al Cairo, sempre domani, il presidente Hosni Mubarak incontrerà il nuovo ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni la quale, in un secondo momento, dovrebbe avere anche un incontro con lo stesso generale Omar Suleiman. Non lontano dalla guest house dove sarà ospitato Khaled Meshaal.