Sono stati due importanti momenti d’incontro. Ma se non si recupera la parte buona della nostra storia, la «politica» e i «movimenti» saranno sempre più separati e discordanti
La domanda che si è espressa il 15 gennaio (e ri-espressa il 16) ha dimostrato che dopo anni di diffidenza per la politica oggi se ne sente nuovamente bisogno. Meno male. Il difficile ora è dare una risposta. Tocca al manifesto avere a questo fine uno scatto di soggettività, quale ha avuto assumendosi la responsabilità di convocare l’assemblea. Non è tanto bizzarro, infatti – come ha notato nella sua introduzione Gabriele Polo – che sia un giornale come questo a prendere l’iniziativa di sollecitare la sinistra. Non lo è perché il manifesto non è nato come un giornale qualsiasi, ma come strumento a sostegno di un progetto politico. Ed è – io credo – per via di quanto quella storia ancora evoca, e non solo per le sue qualità giornalistiche, che il quotidiano riscuote tuttora una fiducia particolare. Quel progetto delle origini, come del resto tutti gli altri della sinistra di questo scorcio di secolo, non ha avuto fortuna. Ma non credo sia stato affatto inutile essercisi impegnati così come utile sarebbe oggi riflettere su quell’esperienza così come su quella più generale della sinistra. Nonostante il sacrosanto diritto di ogni generazione a scoprire nuove strade, non sono d’accordo quando su questa «liberazione generazionale» si insiste oltremisura. Di cosa si devono liberare i giovani? In Italia non c’è stata una sinistra qualsiasi. C’è stata una sinistra migliore e più ricca che ovunque altrove. Gettare via il patrimonio che aveva accumulato è stata una delle colpe più gravi della dirigenza Pci che decise lo scioglimento del partito, innescando un processo di liquidazione via via accelerato a ogni cambio di nome. Capire perché e dove abbiamo sbagliato, ma anche afferrare il valore, ancora attuale, di ciò che non è stato sbagliato, è importante se non ci si vuole condannare a essere piccola cosa.
Patrimonio rimosso
So bene, quando scrivo queste cose, di apparire la nonna che sono. E tuttavia insisto perché sebbene io sia fra le più convinte entusiaste delle innovazioni politiche operate dai nuovi movimenti nell’assistere all’assemblea del 15, e poi al seminario del 16, sono rimasta atterrita nel verificare l’ampiezza della rimozione che si è prodotta. Della cultura storica comunista in chi oggi è in prima linea nelle lotte è rimasto poco o niente: sembra che sulla sinistra attuale sia passato lo tsunami. Intendiamoci: sono convinta che quelli nati dopo l’80 abbiano dato alla sinistra un apporto di energia e di intelligenza vitali, dotandola di antenne meno arrugginite che hanno consentito di dar peso a problematiche solo appena annusate in precedenza (l’ecologismo, per esempio); di acquisire uno sguardo più largo sul mondo, reinverando quanto un tempo si chiamava internazionalismo; e anche di una capacità tutta politica e concreta di individuare nuovi obiettivi, generali e al tempo stesso locali (l’acqua, per esempio), così come organismi e meccanismi di primaria importanza di cui prima si occupavano solo gli specialisti. Non penso affatto, insomma, che chi ha operato fuori dai partiti non abbia fatto politica, come spesso si dice: hanno piuttosto imposto all’ordine del giorno tematiche marginalizzate dalla cultura politica tradizionale della sinistra e del sindacato. Tanto più dunque, e non tanto meno, mi sembra un gigantesco spreco non colmare il solco creato dalla rottura di continuità che si è verificata negli anni `90. Una rottura cui i partiti della sinistra, tutti, hanno contribuito ciascuno a suo modo: o perché vergognosi del proprio passato, o perché affascinati dal nuovismo, o, ancora, perché interessati a usare acriticamente il radicalismo dei movimenti scrollandosi di dosso il fastidioso e impopolare compito di socializzare la memoria.
Quanto dico mi colloca ovviamente fra coloro che, Rossana Rossanda in primo luogo, hanno insistito sulla necessità di ricostruire una cultura politica della sinistra, un impegno che a me pare non sia affatto in contraddizione con l’urgenza dell’agire politico: non si tratta di un primo tempo, ma di una caratterizzazione della pratica. Il percorso avviato con l’assemblea del 15 può, da questo punto di vista, risultare prezioso, ma credo occorra coinvolgere tutti nel dibattito sulla storia per ricostruire insieme questa cultura. Che ci serve se non vogliamo restare uniti soltanto dai valori. E allora d’accordo a non operare forzature organizzative; d’accordo a rispettare le diversità di ognuno (saper lavorare convivendoci è uno dei grandi meriti dei nuovi movimenti); ma guai se questo finisce per diventare agnosticismo, indifferenza verso l’obiettivo di ricostruire una comune visione del mondo. Pur nel rispetto del pluralismo, per esempio, credo essenziale affrontare il nodo del potere, discutere se sia o meno sufficiente in questo sistema globale una contestazione dal basso; una pratica alternativa, etica e sociale; l’aggregazione di esperienze molecolari, o sia assolutamente necessario proporsi un rapporto con le istituzioni, sì da conquistare leve decisionali in grado di modificare in concreto pezzi di realtà, sia pure non tutta la realtà. Questo nodo è certo il più difficile: il post `68 ne fu ossessionato, oggi invece viene rimosso. Mentre resta ineludibile se si vuole definire una strategia che preveda conquista di «casematte» e costruzione di alleanze, che distingua fra contraddizioni fondamentali e secondarie, che sappia anche fare dei compromessi.
L’intellettuale collettivo
Ma questo comporta la difficilissima operazione di tradurre i valori in azione politica: la non violenza, per esempio, resta solo morale se ci si limita al rifiuto della guerra e non ci si sforza di provarne la superiore efficacia, nelle condizioni ogni volta date, come mezzo per risolvere i conflitti in atto – e contestare le oppressioni – senza ricorrere all’uso delle armi. Così come comporta la necessità di analizzare con maggiore serietà i processi internazionali in corso. L’altro giorno sono usciti sul manifesto, in occasione del Forum di Porto Alegre, due diversissimi giudizi sull’America Latina (di Walden Bello e di Gianni Minà), che hanno dato luogo a due diversissimi comportamenti: alcuni hanno fischiato Lula, altri no. Confrontarsi con queste contraddizioni non è parlar d’altro, ma un modo molto concreto per costruire una unità più salda fra di noi. Se non faremo chiarezza su questi nodi, infatti, potremo alla fine anche vincere le elezioni ma trovarci poi lacerati fra il ricatto di salvare il «nostro» governo e la volontà di non tradire i nostri principi. Questa mediazione alta, però, devono essere tutti a definirla. Il rischio che vedo è che invece questo non avvenga se finiscono per predominare l’assemblearismo (che non produce più trasparenza ma solo delega) oppure se – ecco il pericolo del lavoro avviato il 16 – i «bravi ragazzi» dei movimenti restano impegnati a stilare programmi politicamente non attuabili dati i rapporti di forza esistenti e i «cattivi» dirigenti dei partiti si incaricano poi, per conto loro e in altre sedi, di definire i compromessi necessari. Il rifiuto della delega da parte dei movimenti e più in generale delle nuove generazioni è comprensibile. Muove da una sacrosanta critica alla degenerazione della politica quale si è verificata in questi anni. E però bisogna uscire dal dilemma: salvaguardare la propria autonomia e non farsi spiritualmente corrompere dalla politica/condannarsi all’impotenza. Gramsci nei Quaderni – ne ha scritto con acutezza Magri sulla rivista del manifesto – indica un modello di partito che non deve essere né avanguardia (secondo una certa tradizione comunista), né manager del governo (secondo quella socialdemocratica), ma «intellettuale collettivo», che gradualmente riduce la separazione fra governanti e governati e grazie a questo diventa promotore di una generale riforma culturale e etica.
Quando all’inizio accennavo alla necessità di non perdere il nostro patrimonio pensavo proprio a questo tentativo in cui, sia pure con molti limiti, il vecchio Pci si era impegnato. Solo, sia pure nel corso di un processo che sarà assai lungo, ricostruendo un partito che accorci la distanza fra chi decide e chi è solo chiamato a esprimere valori, sarà forse possibile uscire dal dilemma. So che è difficile, ma se si pensa che un altro mondo sia possibile si può anche immaginare che lo sia un altro tipo di partito. Non chiedo che questo tema sia posto all’odg del programma cui stiamo lavorando, ma solo che non venga esorcizzato, perché non vedo come altrimenti sia possibile evitare paralizzanti diffidenze o incontrollate disinvolte operazioni verticistiche.