Alla Moneda la prima volta di una donna

Strano paese, il Cile. Non solo per la sua bizzarra geografia. Qui a Santiago, almeno nel centro e ancor più mano a mano che si sale verso i quartieri ricchi del nord e dell’oriente della città, sembra di essere chissà dove. Le strade sono pulite, i prati sono curati, i semafori sono rispettati, le macchine si fermano educatamente davanti alle strisce pedonali, perfino i perros vagos – l’infinità di cani randagi che scorrazzano – per sopravvivere sembrano avere imparato a passare col verde, le panchine del parco Balmaceda, lungo il fiume Mapocho, nelle serate estive sono il rifugio non solo di solitari clochard ma anche di giovani coppie effusive che evidentemente si sentono al sicuro. La violenza, la droga, l’esclusione, la rabbia sembrano essere altrove, nascoste nelle poblaciones della periferia: l’altro Cile, quello che è stato tagliato fuori e paga i prezzi del «modello». Tutto all’occhio è così netto e definito da apparire definitivo, immutabile. E’ anche per questo forse che le elezioni di domani non smuovono più di tanto le passioni. Probabilmente, adesso o nell’eventuale ballottaggio di gennaio, vincerà la candidata Michelle Bachelet e la Concertación fra socialisti e democristiani, pur con qualche crepa al suo interno, arriverà con i prossimi quattro anni a un ventennio filato di governo in democrazia. E la destra civile, che per via elettorale non vince più un’elezione dal 1958 e si becca con i suoi i due rissosi galli – il pinochettista Joaquín Lavín e il liberale Sebastián Piñera -, dovrà rinviare i suoi sogni di rivalsa.

Perché cambiare cavallo se tira ancora che è una meraviglia? Quando nel gennaio del 2000 Ricardo Lagos, dopo i primi due presidenti democristiani della Concertación sconfisse d’un pelo Lavín, ci fu chi credeva che il primo socialista a rimettere piede alla Moneda dopo il tragico epilogo di Allende fosse «un lupo travestito da agnello». Sei anni più tardi Lagos si appresta a lasciare la Moneda quasi in trionfo. E il trionfo gli viene decretato non tanto dall’altro Cile, quanto dal Cile che conta.

Martedì 29 novembre nella Casa Piedra, qui a Santiago, nella cena di commiato offerta dall’Enade, l’Encuentro Nacional de la Empresa, 1500 fra imprenditori, manager e dirigenti industriali gli hanno decretato una standing ovation così prolungata da apparire perfino imbarazzante per un presidente socialista, anche se sembra che Lagos non fosse per nulla imbarazzato. Abilità, carisma, leadership, moderazione, equilibrio, fedeltà al «modello» economico, discrezione nel tema pendente dei diritti umani e nell’espulsione morbida di Pinochet dalla scena politica, fortuna anche (il rame, l’oro rosso cileno, passato dai 60 centesimi di dollaro a oltre 2 dollari la libbra), che è un ingrediente essenziale per un politico. «Il primo presidente del Cile che parla un inglese fluente e ha un dottorato in economia», aveva sentenziato quella sera Cesar Barros, presidente della borsa agricola. Bisognava riconoscere che «Lagos ha superato tutte le aspettative iniziali», si era entusiasmato Luis Schmidt, un altro degli imprenditori presenti.

La conferma, per contrapposizione, viene anche da Tomás Hirsch, il candidato «umanista» che non è comunista ma nelle elezioni rappresenta i comunisti e quella fetta di Cile politicamente esclusa a sinistra: «Lagos è stato il miglior presidente che ha avuto la destra», dice.

Da un certo punto di vista Lagos è stato senza dubbio un ottimo presidente. Ma la legge di (auto)amnistia del `78 con cui Pinochet pretendeva di mondarsi da tutti i suoi peccati mortali è ancora lì, intatta e lasciata nelle mani di qualche giudice che abbia il coraggio di non applicarla. La costituzione pinochettista dell’80, con cui il regime pretendeva di perpetuarsi anche dopo l’uscita di scena di Pinochet, è ancora lì, non intatta ma vigente anche se emendata in alcuni dei suoi aspetti più aberranti. Il sistema maggioritario binominale dell’88, geniale e perversa invenzione del professor Jaime Guzmán dopo la sconfitta nel referendum che costringeva Pinochet a lasciare la Moneda, è ancora lì, intatto, a consentire alla destra di avere in parlamento quasi gli stessi seggi del centro-sinistra con la metà dei voti e di escludere i comunisti con quasi il 10% dei voti. Dal `90, anno del ritorno della «democrazia», non c’è né un deputato né un senatore del Pc nel Congresso di Valparaíso e in tutto il Cile c’è un solo sindaco comunista, in una cittadina a sud di Santiago.

Se non Aylwin e Frei, i democristiani, Lagos, il socialista, avrebbe potuto – e dovuto – lanciare una grande mobilitazione popolare che risvegliasse la coscienza contro l’amnistia, la costituzione e l’iniquo sistema elettorale. Ma ha privilegiato la governabilità (e il tornaconto) sulla mobilitazione delle coscienze (e la democrazia).

Entrando nel cimitero generale di Santiago, una delle prime tombe in cui ci si imbatte è quella del senatore Jaime Guzmán, il padre della costituzione dell’80 e del criminoso sistema elettorale binominale, che – dice la lapide – «amò Dio e la Patria» e fu ucciso dal Frente Patriotico Manuel Rodríguez nel `91 (se davvero è stato l’Fpmr). Subito dietro c’è la tomba di Orlando Letelier, il ministro degli esteri della Up ucciso dalla polizia pinochettista nel ’76 a Washington. Qualche decina di metri più in là c’è la tomba di Salvador Allende ucciso – perché il suo suicidio in realtà fu un omicidio – da Pinochet alla Moneda l’11 settembre del `73. Paradossalmente il più presente dei tre, nel Cile quasi-democratico di oggi, è proprio Guzmán. E simbolicamente la vicinanza di quelle tombe dà un senso anche fisico di continuità.

Quella continuità che è stato il più grande successo e il più grande fallimento della Concertación por la Democracia e in particolare del presidente socialista Ricardo Lagos, che nel 2000 si era se non altro impegnato a garantire una «crescita con eguaglianza».

Quella continuità che la socialista Michelle Bachelet, se sarà lei il prossimo (e la prima donna) presidente del Cile, dice di voler mantenere ma allo stesso tempo superare. Forse ci riuscirà partendo dal suo ruolo di outsider della real-politik di cui il macho Lagos è stato un interprete assoluto. Ma, al di là delle sue buone intenzioni, è difficile credere che i poteri forti che l’assediano abbiano la minima disponibilità a mollare l’osso.