Tregua armata. In attesa del nuovo incontra tra governo, azienda e sindacati, è questo il clima che si respira all’interno delle officine dell’Alitalia. Ieri mattina, nel gelo, i picchetti davanti agli ingressi del personale dell’«area tecnica» di Fiumicino sono rimasti attivi fino all’arrivo dei dirigenti sindacali reduci dall’incontro di palazzo Chigi. E non è stato semplice – per Claudio Genovesi della Fit-Cisl e Mauro Rossi della Filt-Cgil – illustrare in cosa consistesse il «passo avanti» maturato in quella sede. Anche perché tutti avevano già letto le dichiarazione del governo, con il pieno sostegno al «piano Cimoli» e, perciò, alla divisione in due dell’azienda (attività di volo in Az Fly, quelle di terra in Az Service) che i lavoratori vedono come l’anticamera dello spezzettamento societario o l’avvio della chiusura di Alitalia. E certo non devono aver aiutato le dichiarazioni del ministro Scajola («lasciamo lavorare Cimoli, creiamo le condizioni per la pace aziendale»), né quelle di Tremonti («il piano Cimoli è l’unico modo di salvare Alitalia») o dell’Udc Baccini («non è all’ordine del giorno una verifica sul management»). In pratica, si sono dovuto accontentare della rassicurazione, fornita da Gianni Letta, che il governo presserà Cimoli e il suo management a rispettare tempi e modalità dell’accordo sottoscritto nell’ottobre 2004. L’accusa rivoltagli dai sindacati (Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Up) è di aver anticipato a oggi quello che andava fatto nel 2008, e di aver conferito già ora a Fintecna il pacchetto di maggioranza di Az Service, reparti di manutenzione compresi. Per i lavoratori, invece, l’azienda deve rimanere unita, a partire da quelle attività (come la manutenzione, appunto) che è illogico, anche dal punto di vista industriale, separare. Anche il comunicato unitario diffuso dai sindacati confederali registra questa vigile diffidenza, e parla di «stato di agitazione di tutte le categorie di lavoro», «rigida osservanza delle procedure operative, con particolare riferimento all’area dei naviganti»; addirittura non viene esclusa «qualche altra iniziativa di lotta» da qui al primo febbraio (mercoledì prossimo).
Tutte le attività sono comunque riprese, anche se la piena operatività di tutti i voli sarà raggiunta solo nella giornata di oggi. La ragione è però solo tecnica: gli aerei che devono passare i controlli sono molti e il personale addetto alla manutenzione (come in tutti gli altri settori) è da tempo ridotto all’osso. Numerosi voli sono stati perciò cancellati, specie nella mattinata; a soffrire di più sono state le tratte nazionali. Per i passeggeri, comunque, si è provveduto a un ricollocamento a bordo di aerei di altre compagnie.
Il governo, comunque, non ha dimenticato che i sindacati convocati l’altro ieri a palazzo Chigi non esauriscono affatto il panorama della rappresentanza dei lavoratori della compagnia. Ieri sera è pertanto stato convocato anche il Sult, forte soprattutto tra gli assistenti di volo, che era stato l’unico a non firmare l’accordo dell’ottobre 2004 in cui, di fatto, si accettava il piano industriale di Cimoli e i «sacrifici» lì indicati (pari a 2.000 dipendenti in meno e 350 milioni di euro). Il problema della compagnia, però, è da molti anni l’assenza di una politica del trasporto aereo. La «liberalizzazione» imposta dall’Unione europea è stata gestita in modo demenziale – apertura del mercato alla concorrenza quasi senza stabilire regole e meccanismi compensativi – mentre gli altri paesi principali (Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna) hanno elaborato strategie e obiettivi chiari. Qui si è pensato solo a «tagliare»: i posti di lavoro, gli stipendi, il numero dei voli. Senza altro risultato che perdere drammaticamente quote di traffico, soprattutto internazionale (quello interno, intanto, veniva eroso dalla compagnie low cost). Oggi abbiamo il costo del lavoro più basso d’Europa. E un’azienda moribonda. Segno chiaro che non era e non è quello il problema.