Alitalia messa all’asta

Ci siamo. Il governo sta scrivendo «il bando» per la cessione di una quota rilevante di Alitalia (intorno al 25-30%) a un socio privato. E’ stato lo stesso Romano Prodi a chiarire: «c’è una linea di azione ben precisa: l’azionista, che è il Tesoro, in stretto rapporto con Palazzo Chigi, definirà nelle prossime ore i contenuti del bando, secondo gli standard internazionali» e «senza chiedere deroghe all’Antitrust». Pochi dubbi anche sulla tempistica: «nelle prossime ore».
Com’è d’uso, è immediatamente partita la caccia ai possibili concorrenti con le caratteristiche giuste per mantenere l’«italianità» della compagnia di bandiera. Tutti quelli che pensano di «saperla lunga» quei nomi li fanno chiaramente: Carlo De Benedetti e Diego Della Valle, appoggiati dal alcuni fondi di investimento americani. Il sospetto implicito è che si stia tentando di ripetere operazioni tipo la vendita della Sme o della Telecom. Esperienze agghiaccianti. L’alternativa è rappresentata da una cordata formata da AirOne e Banca Intesa nel ruolo di «cassaforte» finanziaria. Il problema è che in questo caso l’«italianità» sarebbe solo formale: AirOne è infatti controllata dalla tedesca Lufthansa.
Sul piano strettamente industriale, infatti, non si conoscono imprenditori italiani con competenze nel settore in grado di tentare questa acquisizione. E nel trasporto aereo, più che altrove, non c’è spazio per l’improvvisazione. Anche nei piani del governo, per quel che sono stati fin qui resi noti, si fa esplicito riferimento a un partner straniero «operativo»; un’altra compagnia aerea, dunque, con cui costruire sinergie senza pestarsi troppo i piedi (Air France, in quest’ottica, è fuori gioco). Molti hanno esibito – Rutelli, per esempio – una preferenza per un partner orientale, visto che la politica estera attuale enfatizza parecchio questa direttrice. E circola il nome della Emirates, compagnia mediorientale di stanza in un paese decisamente «moderato» e filoccidentale. Non ci sarebbero in questo caso sovrapposizioni di rotte, anzi una certa complementarietà.
Illuminante è però la posizione presa dal presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo. Che approva «l’uscita dello stato dal capitale», ma «gli imprenditori non sono dei kamikaze». Se qualcuno si farà avanti lo farà solo in presenza di «un piano industriale serio».
La privatizzazione comporterà inevitabilmente una drastica ristrutturazione e pesanti «sacrifici» in termini occupazionali. Su questo sono espliciti tanto dagli scranni del governo («abbiamo riscontrato la disponibilità della parti sociali ad affrontare con coraggio i cambiamenti indispensabili», spiegava ieri Rutelli) quanto dai vertici del sindacato confederale («una quota della azioni deve essere distribuita ai dipendenti, perché partecipando al capitale di rischio si sentiranno coinvolti nei risultati dell’azienda e sarà quindi più facile chiedere loro i sacrifici che dovranno essere compiuti», consigliava candido Raffaele Bonanni, segretario della Cisl).
La risposta è arrivata a stretto giro di voce sia dai piloti che dagli altri lavoratori. Sia l’Anpac che il Sult hanno immediatamente bocciato l’ipotesi di Bonanni, ricordando che questa strada è già stata percorsa nel 1996, «con risultati disastrosi» e «perdite economiche rilevanti per i dipendenti». L’unico «cambiamento» di quella stagione fu infatti l’ingresso di tre segretari generali di categoria (per Cgil, Cisl e Anpac) nel consiglio di amministrazione dell’Alitalia. Con più di qualche sospetto di «conflitto di interessi» nel rappresentare poi i lavoratori al tavolo delle trattative.
La via scelta per il «salvataggio» dell’Alitalia passa perciò ancora una volta per la «privatizzazione». E’ una via consigliata dall’ideologia liberista, imposta dagli organismi internazionali, accettata senza critiche rilevanti nel governo (le uniche distinzioni sono arrivate da Pdci e «rifondaroli»). L’unica controindicazione vera – quella empirica – non viene neanche presa in considerazione: neppure una delle cessioni di imprese statali è stata coronata da successo industriale. E si trattava di imprese ben più in salute di Alitalia.