Alienato come un operaio. Anche da «outbound» non puoi organizzarti il lavoro

Chiunque conosca l’organizzazione del lavoro nei call center non può non sapere che l’utilizzo del lavoro a progetto in questo settore è illegittimo e maschera sempre condizioni di dipendenza. Già da tempo, il call center è diventato paradigma del lavoro poco pagato, poco gratificante e poco o per niente tutelato. Un lavoro che associa le caratteristiche della vecchia catena di montaggio taylor-fordista a nuovi elementi di relazionalità e emotività, che esasperano il processo di alienazione e sfruttamento, attraverso una vera e propria «mercificazione» dei sentimenti.
I ritmi e i tempi di lavoro, la rigida separazione del luogo delle decisioni da quello dell’esecuzione, la parcellizzazione e la ripetitività delle mansioni rappresentano quanto di più taylorista ci consegni il cosiddetto post-fordismo. Altrettanto vale per i luoghi di lavoro (grandi sale dove si lavora gomito a gomito, di fronte alla propria postazione, in un accavallarsi di voci e di rumori) ma ancor più per gli strumenti e i metodi di misurazione dei risultati.
Il controllo sui lavoratori viene esercitato in modo ancora più invasivo che in passato, grazie alle tecnologie informatiche, che registrano nel dettaglio tutte le operazioni e i relativi tempi di esecuzione: quante telefonate, quanti contatti, quanti rifiuti, in quanto tempo. Gli operatori sanno che da un momento all’altro qualcuno può «entrare in cuffia» e verificare l’andamento della telefonata. Il controllo in sala del team leader insieme a quello tecnologico finiscono per indurre a una sorta di autodisciplina dei lavoratori che introiettano individualmente l’intero sistema di sorveglianza in cui sono inseriti, conformandosi alle norme e soprattutto agli obiettivi e ai ritmi fissati dalla direzione. Quel controllo panoptico, che Foucault identifica come elemento centrale della «società del controllo».
Ma nei call center non si producono beni materiali standardizzati e in serie, bensì informazione, comunicazione, assistenza. Ai lavoratori si chiede di sorridere, di mettere a disposizione i propri sentimenti e le proprie capacità di relazione e di comunicazione. Questo processo, che molti hanno chiamato femminilizzazione del lavoro, ha conseguenze sullo stress, ma anche sulla frustrazione e sulla alienazione. È il caso, peraltro, non soltanto dei call center, ma anche di molti altri lavori nel settore dei servizi alle persone. Lavori dove è altrettanto forte il contenuto relazionale e di cura e dove – paradossalmente – le condizioni di lavoro sono altrettanto pessime e i salari altrettanto bassi. Lavori dove le donne finiscono per essere quasi sempre la maggioranza.
Nei call center, come si legge in una recente inchiesta di Rifondazione Comunista, le donne sono ben il 75% e non sono – come molti vorrebbero – studenti o giovani al primo ingresso nel mercato del lavoro. Proprio tra le donne, è altissima la percentuale di chi ha più di 35 anni e di chi considera questo lavoro come l’unica fonte di reddito e l’unica alternativa per lavorare.
Ciononostante, i contratti sono nella stragrande maggioranza part time, perlopiù a pochissime ore e niente affatto desiderati. Il part time è quasi un dato strutturale nei call center, perché permette di mantenere sempre alto il livello di attenzione degli operatori e consente alla direzione di gestire i turni con un alto grado di flessibilità, che i lavoratori subiscono, adeguandosi all’organizzazione del lavoro così come viene strutturata dall’azienda e dall’esigenze del cliente e del mercato, spesso accettando, in cambio di salari bassissimi, cambiamenti improvvisi di orario, turni spezzati o in orari scomodi.
È in questo contesto che va letto l’utilizzo nei call center dei contratti di lavoro precario, in particolare delle collaborazioni a progetto. Aldilà delle arbitrarie distinzioni del ministro Damiano, l’organizzazione del lavoro non può essere gestita in modo autonomo dai lavoratori e dalle lavoratrici di un call center, anche nel lavoro outbound, dove a dettare i ritmi e gli orari, se anche non fosse il datore, è la natura stessa del lavoro, il pagamento a cottimo e i risultati da raggiungere. L’indicazione degli ispettori del lavoro su Atesia, scopre insomma che il re è nudo.
Questo avrebbe dovuto essere chiaro anche nel controverso percorso contrattuale che ha riguardato Atesia negli ultimi due anni. Ben prima della sentenza degli ispettori del lavoro avremmo dovuto sapere che il lavoro nei call center è alienante, mal pagato e mal tutelato. Un lavoro che, attraverso una organizzazione gerarchica e disciplinare resa più pressante dall’utilizzo della tecnologia, pretende di mettere a valore la relazionalità dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici, la loro capacità di parlare e informare, di convincere e rassicurare. Un lavoro «di relazione» che si scontra con ritmi da catena di montaggio post-moderna, con un sistema di controllo invasivo e con la scarsa preparazione degli operatori, su cui le imprese – a discapito anche della qualità del servizio – decidono generalmente di investire poco o niente.
Ben prima degli ispettori dovevamo sapere che i lavoratori e le lavoratrici dei call center non possono essere – in nessun caso – considerati autonomi e che la cosiddetta «flessibilità» – in questo settore come in altri – si traduce solo in riduzione del costo del lavoro e aumento delle condizioni di precarietà e di ricatto.

*Dipartimento Inchiesta Prc