Alessandro Dal Lago, L’arte occidentale della guerra

Il tema della pace ha attraversato in lungo e in largo molta della storia politica del Novecento, intersecando anche le vicende del movimento operaio. Dalla crisi della Seconda Internazionale che si apre con lo scoppio della Grande guerra alla parola d’ordine della pace immediata nella rivoluzione bolscevica, passando per il VII congresso dell’Internazionale comunista nel ’35, via via fino ai “partigiani della pace”, alla lotta contro l’imperialismo al tempo della guerra del Vietnam e alle grandi dimostrazioni degli anni Ottanta. Un percorso straordinariamente ricco di temi, riflessioni e prospettive, capace di unificare analisi e culture politiche diverse.

Pacifismo e storia operaia.
Alla concezione etica o religiosa che nella pace individua una “categoria dello spirito”, un valore assoluto, un dover essere superiore ai rapporti storici del momento, il movimento operaio aggiunge una determinazione feconda: la ricerca dei nessi di causazione ideale e materiale tra guerra e imperialismo, da un lato, e modo di funzionare dell’economia capitalistica, dall’altro. La svolta fondamentale avviene nel 1935, quando Togliatti al VII congresso dell’Internazionale introduce la «lotta per la pace» fra i compiti prioritari dei partiti comunisti. E’ una risposta alla tesi del “tanto peggio, tanto meglio” che nella guerra vede l’acuirsi delle contraddizioni capitalistiche e l’approssimazione al crollo della società borghese. Si intuisce, invece, nella lotta per la pace la possibilità di un movimento di massa, capace di crescere assieme alla consapevolezza delle radici materiali della guerra: il capitalismo e i conflitti economico-politici che esso genera. Declinare il pacifismo con il conflitto di massa e la critica alla società capitalistica diventa uno degli assi portanti del movimento operaio novecentesco. Così avviene nella fase dei “partigiani della pace” che tengono ferma la relazione tra il pericolo della guerra e la struttura del mondo. Lo stesso accade per il movimento pacifista durante la guerra del Vietnam quando il nesso imperialismo-capitalismo è investito da una protesta di massa. E ancora oggi, il problema è congiungere pacifismo e critica alla globalizzazione capitalistica. La guerra come possibilità distruttiva di civiltà chiede di essere indagata in rapporto ai processi economici mondiali, ai poteri forti e agli interessi geopolitici del capitale.

I conflitti del XXI secolo.
Il XXI secolo si apre con una riedizione della guerra a fattore regolativo della politica internazionale. Per molti studiosi sarebbero però gli elementi di novità a prevalere nei conflitti dell’ultimo decennio, tanto da introdurre la dizione “nuove guerre”. «I conflitti scoppiati in Ruanda, Liberia e Sierra Leone, le guerre del Caucaso e soprattutto quelle seguite alla dissoluzione della federazione jugoslava (tra Slovenia e Serbia, Tra Croazia e Serbia, e soprattutto in Bosnia e Kosovo) sono gli esempi preferiti dei nuovi conflitti. Solitamente, però, il ruolo dell’Occidente (e in particolare dell’Europa) in queste guerre viene minimizzato, oppure ridotto a quello della “pacificazione”, di una nuova saggezza strategica che deve fare i conti con l’irriducibilità dei conflitti locali». In un articolo di quindici pagine Alessandro Lago (Polizia globale? Note sulle trasformazioni della guerra in Occidente, in “I confini della globalizzazione”, Manifestolibri, 265 pagine, 30mila lire) polemizza con quanti riducono il problema della guerra nel XXI secolo ai conflitti etnici o locali, rimuovendo il ruolo militare dell’Occidente. Si è diffuso, in effetti, nel senso comune lo schema che alla patologia irrazionale dei paesi poveri o ex comunisti – propensi a tensioni locali – contrappone la virtù terapeutica, la saggezza, la razionalità dei paesi occidentali. «La verità è, invece, che non solo l’Occidente ha giocato una parte attiva (anche se non necessariamente sul campo) nei processi che hanno portato ai conflitti degli anni ’90, ma che l’Europa, in particolare, ha ritrovato, a quasi cinquant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, un ruolo militare di primo piano nell’ambito dell’alleanza con gli Stati Uniti». Sotto questo segno vanno interpretate le scelte dell’Unione Europea di costituire una forza di intervento rapido di 60mila uomini, le spinte della Turchia, baluardo armato della Nato ai confini sud-occidentali della Russia, a entrare nell’Ue, insieme agli altri stati ex comunisti. Truppe europee presidiano stabilmente i Balcani e «si può prevedere realisticamente che, quando l’Unione europea confinerà direttamente con la Russia, dal circolo polare artico al Caucaso, l’Occidente si troverà ad affrontare nuovi scenari di confronto militare (se non armato) con l’ex-impero sovietico». Bisogna allora indagare «le trasformazioni dell’arte occidentale della guerra, implicate da questi mutamenti che mi sembrano non meno interessanti e ben più gravide di conseguenze delle guerre “locali” o “etniche” che oggi catturano l’attenzione degli osservatori di questioni strategico-militari e degli studiosi di relazioni internazionali». L’intervento armato acquista nella politica internazionale dell’Occidente un peso crescente, cambia la costituzione degli eserciti, si trasforma il modo di preparare e fare la guerra.
Polizia globale «Che cosa è specifico, allora dei nuovi conflitti occidentali e che cosa definisce la “nuova” arte della guerra? In primo luogo, la guerre degli anni ’90, oltre a non essere state dichiarate, non sono state concepite (e presentate alle opinioni pubbliche) come guerre, ma come azioni di “polizia internazionale”». L’atto punitivo, vera novità del presente, è un modo per aggirare le norme delle costituzioni che pongono limiti rigorosi agli interventi armati e per circoscriverne il più possibile gli effetti politici. Questo aggiramento «consente di non coinvolgere gli organismi politici rappresentativi dei paesi membri delle alleanze nella decisione di intervenire militarmente: se quello che stiamo per lanciare non è un atto di guerra ma un’azione di polizia (in nome della pace e dell’umanità) è superfluo che i parlamenti si pronuncino per autorizzare l’intervento». Il potere decisionale è sottratto alle rappresentanze nazionali e avocato a sé dalla Nato: un esempio di sottrazione di sovranità che rivela «non tanto la fine degli Stati (europei) quanto il loro declino in favore di istanze trans-nazionali oggettive di decisione». Si tratta, per concludere, «di una trasformazione decisiva nel modo occidentale di concepire la legittimazione politica della guerra, di fatto al di fuori di qualsiasi tradizione politica democratica» che destituisce anche l’Onu di ogni autorità.