Alcune proposte di mediazione tra sinistra riformista e radicale

E’ del tutto evidente, e le primarie lo hanno dimostrato, che il movente più forte che spingerà gli elettori democratici ai seggi il 9 aprile non sarà la passione per il centro o per la sinistra (ad onta del bipolarismo) e nemmeno la brama di insediare un presidente del Consiglio insindacabile che possa governare indisturbato per cinque anni (ad onta della “governabilità”), ma l’assillo e il desiderio di far uscire l’Italia dalla notte oscura in cui il governo Berlusconi l’ha cacciata, e di costruire le condizioni perché essa possa non solo riassestarsi, ma tornare a vivere come comunità politica e a cercare le risposte da dare oggi a problemi sconosciuti ad altre età.
Ciò conferisce alla Unione di centro-sinistra una grande responsabilità, anche al di là della sua area sociale e politica di riferimento, e comporta che le questioni controverse siano risolte non con il prevalere volta a volta, grazie ai rapporti di forza, di una tesi sull’altra, ma con una mediazione alta che sappia cogliere il massimo di verità interna di ciascuna posizione.

Vorrei citare alcune di tali questioni a titolo di esempio.

La prima riguarda l’emergenza Costituzione. È chiaro che dopo il voto della Camera e lo scontato sì definitivo del Senato alla liquidazione della Costituzione del ’48, ci sarà un’unanime posizione del governo Prodi e dell’Unione per bocciare la Costituzione di Lorenzago nel referendum popolare dell’anno prossimo. Ma dopo si aprirà la disputa tra chi vuole conservare la Costituzione così com’è e chi la vuole “aggiornare” pur rispettandone i valori fondamentali. Dato l’attuale livello della cultura e della coscienza costituzionale nel Paese, quest’ultima operazione sarebbe rischiosissima, come già si è visto nella Bicamerale. Qui la mediazione alta consiste in una interpretazione dinamica ed evolutiva della Carta, come è accaduto in questi anni grazie alla giurisprudenza della Corte costituzionale. Basti pensare alle acquisizioni costituzionali, ulteriori rispetto al testo scritto del ’48, ma ormai assimilabili alla stessa Costituzione formale, in tema di diritto penale, di laicità dello Stato, di obiezione di coscienza, di bilanciamento di tutela tra i diritti della madre e quelli del concepito, e così via. Allo stesso modo, a Costituzione vigente, sono possibili esperimenti di variazioni del sistema politico ed elettorale, ad esempio ai fini della stabilità, ma nel rispetto dei principi fondamentali e senza creare situazioni irreversibili.

La seconda questione è quella aperta tra proporzionale e maggioritario, che è poi il problema del rapporto tra rappresentanza e governabilità. Non è possibile una scelta che privilegi assolutamente l’una, e mortifichi o addirittura neghi l’altra.

Nel maggioritario c’è la soppressione politica del nemico, fino a rendere vano e come non avvenuto il suo voto, nei collegi e, secondo la riforma berlusconiana, addirittura in Parlamento. Nel proporzionale c’è la tentazione della estrema parcellizzazione del potere, perché ognuno se ne possa aggiudicare una quota, e con quella contrattare o ricattare l’intero. La mediazione consiste nel sottrarre gli strumenti istituzionali alla cultura del nemico (e perciò il maggioritario come è stato realizzato e vissuto in Italia), e nel rompere l’equazione tra pluralismo politico e spartizione proporzionale del potere. Il manuale Cencelli dovrebbe essere bandito nei patti di coalizione. La proporzionale non serve ad assegnare le quote azionarie sul bottino, né la frammentazione dovrebbe trovare il suo premio nello spoil system. In un corretto rapporto tra rappresentanza e governabilità occorre tener conto che la rappresentanza è un principio, il governo è una funzione (la Costituzione non parla di poteri, ma di “funzioni”). La stabilità del governo non può mutarsi da questione funzionale a questione di principio, perché una assoluta stabilità e inamovibilità del potere, fosse anche solo di cinque anni in cinque anni, sarebbe fuori e contro l’idea stessa di democrazia.
Sulla controversia economica un punto alto di mediazione mi pare sia stato enunciato da Prodi, quando ha detto a “Porta a porta” che la vecchia discussione sui due tempi – prima il risanamento, poi lo sviluppo – è oggi improponibile, perché senza far ripartire l’economia, senza riprendere lo sviluppo, senza ridistribuire reddito, non ci sarebbero neanche i soldi per il risanamento.

Non so se sia vero quanto è stato detto da qualcuno in quella stessa occasione, che per Prodi sarebbe più facile un accordo con Bertinotti su questo terreno che su quello della politica estera. Se così fosse, non credo che ci si potrebbe accontentare di questo accordo a metà. Un po’ a te, un po’ a me, e a ciascuno secondo la propria forza rispettiva, non è una mediazione alta. Invece una mediazione alta sarebbe di dire: va bene, si va via dall’Iraq e non dall’Afghanistan; ma a quale titolo, per quale ragione, in quale contesto, nel quadro di quale compatibilità costituzionale, e fino a quando rimanere in Afghanistan?

Allora qui si dovrebbe andare più a fondo della contraddizione immediata, e chiedersi come mai, nonostante le differenze tra le varie situazioni, l’Italia è andata ad occupare l’Iraq, e prima è andata in Afghanistan, e prima ha fatto la guerra contro la Iugoslavia, e prima ha partecipato alla guerra del Golfo. Quattro guerre dal 1991 ad oggi. E allora una politica alta consisterebbe nel riprendere in mano il “Nuovo Modello di Difesa” che dopo la rimozione del muro di Berlino fu adottato, o recepito, dall’Italia senza dibattito parlamentare. Quel Modello ha quindici anni, non ci sarebbe niente di strano a verificarlo e a considerarlo obsoleto. Esso va giudicato dai suoi frutti. E se i frutti sono stati la partecipazione italiana a tutte le guerre che sono state disponibili nel quindicennio, mentre per altri Paesi non è stato così, vuol dire che quel Modello di Difesa è sbagliato. E il suo sbaglio stava nel suo principio, che stabiliva il nuovo criterio dell’uso delle Forze Armate italiane non più nella difesa della Patria, comunità nazionale e territorio, ma nella difesa degli interessi nazionali, anche economici, dovunque fossero in gioco nel mondo, e individuava, fin da allora, nell’Islam il nuovo nemico, sul paradigma del conflitto arabo-israeliano, che «nella sua contrapposizione tra tutto il mondo arabo da un lato, sia pure con formule e sfumature diverse, ed il nucleo etnico ebraico dall’altro», veniva «considerato un’emblematica chiave interpretativa del rapporto Islam-Occidente».

Se si cambia Modello di Difesa, se il fine torna ad essere quello di «un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni» (art. 11 Cost.), se viene revocata l’identificazione dell’Islam come nemico, se si apre una trattativa con il Consiglio di Sicurezza per l’attuazione del Capo VII della Carta dell’Onu e si mette a disposizione dell’Onu e sotto la sua “direzione strategica” parte delle Forze Armate italiane, allora, certo, si può anche restare in Afghanistan. Ma uscendo dalla mera convenienza o tattica politica.

Qualcosa del genere, secondo questo metodo e nella diversità delle questioni, vuol dire affrontare oggi problemi “sconosciuti ad altre età”.