NAPOLI
Quanto lo sviluppo dell’Italia del dopoguerra deve all’impresa pubblica? Ed è vero che è un intervento obsoleto da lasciare al passato, come raccontano le politiche ufficiali di questi ultimi anni? E tutte le industrie messe in piedi da quegli interventi sono destinate a diventare archeologia industriale? E inoltre: come parlare ai giovani, ad esempio quelli che hanno arricchito i cortei dell’ultimo sciopero dei metalmeccanici, di una storia terminata ma che ha avuto un ruolo decisivo nel bene e nel male?
Perdere la memoria è pericoloso e la Fiom non vuole farlo. Presso la sezione motori del Cnr di Napoli, in occasione del centenario della sua storia, il sindacato metalmeccanico ha organizzato per il 24 e il 25 maggio il convegno “Dalle partecipazioni statali alle politiche industriali: storie industriali e del lavoro”. La prima giornata ha affrontato il tema del rapporto tra partecipazioni statali e siderurgia pubblica, con riferimento soprattutto all’esperienza dello stabilimento di Bagnoli. Oggi, invece, tavola rotonda su partecipazioni statali e privatizzazioni, con Riccardo Nencini della segreteria Fiom, Giuseppe Bono amministratore delegato Finmeccanica e Antonio Bassolino presidente della regione Campania. Luciano Segreto, aprendo le relazioni, è stato esplicito: “Se l’Italia è diventata una grande nazione industriale lo dobbiamo all’impresa pubblica e, con buona pace degli ultraliberisti di oggi, va ricordato che dell’intervento pubblico c’è sempre bisogno”. A Gianni Silei e Pietro Causarano è spettato il compito di analizzare le relazioni industriali in rapporto alle rappresentanze del lavoro e alle culture del lavoro. “Le partecipazioni statali hanno svolto un ruolo pionieristico – ha detto Causarano – La loro strategia si espande con forza sulle tematiche delle culture del lavoro: hanno, ad esempio, un ruolo fondamentale per la nuova contrattazione e per l’agire sindacale dentro l’industria pubblica”. “Il grande problema che dobbiamo porci tutti – si è chiesto Ruggero Ranieri – è come mai si è perso tutto questo. Occorre uscire dai cliché e ricercare gli errori strategici”. Federico Pirro e Paolo Arvati hanno analizzato i casi di Taranto e Genova attaccando i nuovi approcci demagogici delle amministrazioni municipali che leggono in chiave di contrapposizione i nuovi poli di sviluppo ambientalista. E dopo quelli di Taranto e Genova, ascoltare le storie del quartiere (ex) operaio di Bagnoli è come avere un colpo al cuore. C’è una memoria che scompare, un’introiezione della sconfitta in tutto l’habitat del quartiere, un nuovo (in campo culturale e turistico) che fa fatica a nascere.
“Avevamo la fabbrica e una cultura operaia – dice la testimonianza letta al convegno – E oggi?”. Racconta Maria Antonietta Selvaggio, insegnante a Bagnoli: “Nelle inchieste che abbiamo condotto colpiva, nel racconto degli anziani, la narrazione di una vita coesa e comunitaria, mentre i giovani invece parlano di disgregazione. Tutte cose che fanno riflettere. Al di là delle mitizzazioni del passato, che cosa bisogna fare? Per me bisogna innanzitutto chiedersi che cosa lascia dietro di sé la chiusura di una grande fabbrica”. E’ toccato a Claudio Sabattini concludere questa prima giornata con un intervento lucido sulla storia dell’intervento pubblico: “Bisogna partire dal dato che il capitalismo italiano non ha una forza autonoma in sé. La grande industria privata italiana ha sempre avuto bisogno dello Stato. Le imprese pubbliche, va detto, sono state assolutamente più avanzate del privato”. Sabattini passa ad analizzare anche le degenerazioni di quel sistema: “A un certo punto le partecipazioni statali diventano centri di potere e di finanziamento del sistema politico”. Poi riprende: “Nonostante tutto non mi pare si possa dire che è stata un’esperienza negativa. Stava in fondo, si pensi soprattutto al Sud, dentro un processo politico in cui si voleva programmare, mentre l’industria privata italiana non voleva nessun tipo di programmazione industriale e complessiva del Paese. Con un capitalismo così, mi si passi la battuta, è difficile fare una grande battaglia sui salari”. Poi la conclusione: solo nel periodo ’68-’71 si è messo in discussione ciò che era considerato indiscutibile. Forse noi abbiamo superato il fordismo, ma nessuno può dire che abbiamo superato il taylorismo”.