Al Qaim, una tragedia senza media

Per due settimane abbiamo atteso di poter raggiungere la città di al Qaim, al confine con la Siria, teatro insieme ad Haditha e agli altri centri dell’estremo ovest dell’Iraq di continue offensive militari americane (in particolare quelle cominciate il 31/10 e il 5/11) che avrebbero provocato un numero imprecisato di vittime, enormi distruzioni e oltre 100.000 profughi, molti dei quali sistemati in squallide tendopoli nei paesi vicini e soprattutto in pieno deserto, privi di qualsiasi assistenza. Totalmente isolati villaggi e campi profughi sull’altra riva dell’Eufrate divenuta irraggiungibile dopo che gli Usa hanno bombardato e distrutto tutti i ponti (tre ad al Qaim e due ad Haditha) della regione. Migliaia e migliaia di famiglie, fuggite sotto i bombardamenti senza poter portare nulla con sé, se non la loro vita, con l’arrivo dell’inverno, hanno ora un disperato bisogno di vestiti pesanti, specialmente per bambini, medicine ma anche generi alimentari. Dopo esserci persi nel deserto per un paio d’ore siamo arrivati all’ospedale di al Qaim verso le cinque del pomeriggio. All’ingresso troviamo un grande striscione nero in ricordo dell’autista dell’ambulanza, Mahmoud Chiad, ucciso il primo ottobre scorso dai soldati americani mentre stava prestando aiuto ad alcune famiglie rimaste ferite nei bombardamenti. Un giovane, H. Khalaf, giace su una barella immerso nel suo sangue. E’ stato colpito ai testicoli da un cecchino americano mentre stava attraversando la strada per andare al mercato. La zona in quel momento era del tutto tranquilla, niente spari, niente bombardamenti. Niente. Un vicino che è riuscito a portare il ferito in ospedale ci dice «abbiamo sentito un solo colpo e l’abbiamo visto a terra ma non abbiamo potuto prestargli alcun aiuto a causa del cecchino. Per fortuna è riuscito piano piano a trascinarsi in una vicina traversa dove lo abbiamo soccorso». Vicino a lui c’è un altro giovane Salah Hamid colpito anche lui sotto la cintura. Alle dieci di mattina del 17 ottobre era alla guida del suo taxi nella strada del mercato quando è stato anche lui colpito da un cecchino americano. E’ talmente indignato che, nonostante le ferite urla contro gli americani con degli epiteti mai usati in pubblico da queste parti. Gli hanno dovuto tagliar via gran parte del suo intestino e il suo taxi è completamente distrutto.

Nella sala dei medici le finestre, i muri, le tende sono tutti bucati dalle pallottole. Il vice direttore ci spiega la drammaticità della situazione e ci racconta dei bombardamenti continui sulle case e contro le automobili, dei cecchini che sparano contro qualsiasi cosa si muova (due giorni fa hanno ucciso senza motivo anche sei asinelli), dell’assedio alle città e ai villaggi, della chiusura dell’autostrada che ha costretto molti profughi a fuggire nel deserto. Tutti vengono fermati e da alcune settimane i soldati non permettono più l’arrivo in ospedale persino delle bombole per l’ossigeno.

Il ragioniere generale ci racconta invece della drammatica situazione creatasi sull’altra riva dell’Eufrate dopo il bombardamento dei ponti. Di là dal fiume vi sono molti villaggi Rumana, al Beidha, al Ish, Dgheina, Baghooz, al Rabot dove molte famiglie di al Qaim erano fuggite all’inizio dell’attacco contro la città nell’ottobre scorso. «Privi di ogni aiuto quei villaggi – ci dice il funzionario dell’ospedale – sono ora obiettivo di frequenti bombardamenti. E nessuno sa quel che vi sta succedendo. Per circa 110 chilometri lungo l’Eufrate non ci sono ospedali o cliniche e neppure dottori. Non sappiamo quanti siano i morti. Le famiglie li seppelliscono il giorno stesso senza alcuna registrazione o documento e, naturalmente senza alcun media. I feriti devono esssere trasportati verso questa riva del fiume su zattere di fortuna, muoiono dissanguati o restano sotto le macerie». «A tirarli fuori ci sono solo – continua il rappresentante dell’ospedale di al Qaim – vicini o parenti, se ci riescono. Qui in città adesso il problema più grave è quello dei cecchini che ogni giorno fanno nuove vittime». E’ il caso dell’autista dell’ambulanza Mahmoud Chiad di 35 anni ucciso da una fucilata dei soldati mentre stava andando a Karabla ad aiutare alcuni feriti. Dopo averlo colpito gli hanno anche sparato contro una granata che ha ridotto l’automezzo ad un cumulo di rottami roventi. Era ancora li quando siamo arrivati ad al Qaim ma non abbiamo potuto fotografare la carcassa bruciata o riprenderla perché si trova nel territorio dei cecchini, nella «terra di nessuno», come la chiamano sinistramente. Mahmoud lascia sua moglie e sei bambini, il più vecchio di dieci anni.

La mattina dopo, verso sette, siamo tornati al pronto soccorso dove abbiamo udito urla e visto una grande agitazione. Davanti all’ospedale erano arrivate due auto coperte di polvere e un gruppo di uomini. Un vecchio piangeva gridando al cielo «Venite a vedere quel che ci è successo». Altri piangevano in silenzio. Su due barelle vicine c’erano una ragazzina di dieci anni e una donna di circa venti, ancora coscienti.

La ragazzina, gravemente ferita non sa ancora che è l’unica sopravvissuta di una famiglia di otto persone distrutta dai bombardamenti sul . villaggio di al Ish alle due di notte del 26 ottobre scorso. La donna, avvolta in una coperta bruciacchiata, ci racconta come il giorno prima della tragedia gli americani avevano fatto uscire lei e le altre donne dalla casa di famiglia dopo averla circondata. Non è in grado di dirci sa se gli uomini siano stati sepolti sotto le macerie della casa fatta saltare dagli americani o se siano stati portati via. In ogni caso di loro non si sa più nulla. La giovane signora aveva quindi trovato rifugio presso uno zio ma quella stessa notte un missile Usa ha distrutto la sua nuova casa: «Non so cosa sia successo agli altri – ci dice a bassa voce – c’erano una trentina di persone». I medici ci sussurrano che si sono salvati solo lei e un altro ospite.

Uno dei responsabili del quartiere di al Risala di al Qaim ci racconta tante altre tragiche storie di queste settimane durante le quali, nel silenzio del mondo, questa città è stata ferita e semidistrutta tanto che oltre la metà degli abitanti è fuggita sotto le bombe per cercare scampo altrove. Gli chiediamo se è possibile raccogliere qualche testimonianza. Esita. Dopo un po’ ci dice che possiamo andare solamente nelle zone «sicure» dove non vi sono dei cecchini. La città oggi è totalmente differente da quella che vedemmo nell’aprile del 2004. Allora era piena di vita. Adesso è una città morta. La strade sono avvolte nella paura. La prima storia che ci raccontano è quella di Saggar Hamdan, un tassista che il primo giorno dell’attacco decise di fuggire dalla città per portare in salvo la sua famiglia e quella del fratello – in tutto diciannove tra donne e bambini. Lungo la strada l’auto venne colpita e incendiata dai soldati americani che impedirono poi a chiunque di avvicinarsi finché l’automezzo non fu ridotto ad un cumulo di ferraglie e di corpi bruciati. Solamente dopo cinque giorni un cugino, a rischio della sua vita, con in mano una bandiera bianca, si mise sulla strada dove passavano i convogli Usa gridando che non si sarebbe mosso di lî finché non gli avessero restituito i corpi dei suoi parenti. Poco dopo arrivò il comandate americano con in mano un sacco di plastica nera e gli disse: «ci dispiace ci siamo sbagliati. Ecco i resti dei suoi parenti».

Il dottor Walid, che incontriamo nella vicina Aanah, dove è sorta una grande tendopoli con i profughi di al Qaim, ci racconta come il suo piccolo ospedale non riesca ormai più a far fronte all’emergenza: «Riceviamo 500-600 pazienti ogni giorno ma non abbiamo chirurghi, anestesisti, medicine, materiali da laboratorio. E’ una situazione disperata, senza uscita, e non solo qui. E’ lo stesso in tutto l’Iraq occidentale».

Prima di partire per Haditha ci ferma Shareef, pompiere e volontario della difesa civile, che a denti stretti mormora: «Dove sono le nazioni del mondo, dove sono i musulmani, dove sono gli Arabi? Milioni e milioni pregano ogni giorno ma nessuno vede quel che ci stanno facendo?».