E’ oltremodo significativo l’assordante silenzio che sta circondando la stretta finale della vicenda giudiziaria snodatasi all’indomani della privatizzazione della Centrale del Latte di Roma: un’operazione clamorosamente fallimentare che vide quali infausti promotori l’attuale ministro degli Affari regionali Linda Lanzillotta (allora assessore per le politiche economiche e finanziarie del Comune di Roma) e Francesco Rutelli, allora sindaco capitolino. Il prossimo 19 dicembre, il Consiglio di Stato dovrebbe infatti pronunciare in merito l’ultima sentenza e, con essa, la possibile conferma di quanto ha stabilito il Tar del Lazio il 20 febbraio scorso: la nullità della cessione della Centrale del Latte alla Cirio di Sergio Cragnotti da parte del Comune di Roma (“per svolgimento non regolare della procedura di privatizzazione in violazione dei principi di correttezza e trasparenza amministrativa” nonché “per mancata persecuzione di pubblico interesse”) e, conseguentemente, per nullità della successiva vendita della Centrale alla Parmalat. Nel frattempo – come veniva sottolineato qualche giorno fa sul quotidiano ‘Finanza e Mercati’ – il gruppo di Collecchio, già messo a dura prova dal recente crac e oggi sottoposto ad amministrazione straordinaria, sceglie un basso profilo comunicativo ed evita di allarmare i suoi azionisti. C’è da capirlo: la Centrale del Latte di Roma figura nel Piano di ristrutturazione tra gli asset strategici del gruppo, “una fondamentale risorsa in termini di potenziale generazione di cassa per lo sviluppo dei marchi globali e internazionali”, con una valorizzazione superiore a quella di Parmalat Holding (la controllata canadese che produce oltre un terzo del fatturato Parmalat).
I fatti di cui stiamo trattando sono noti, di certo ben conosciuti dai cittadini romani. Ed anche dai militanti di Rifondazione Comunista, che all’epoca condussero un’aspra battaglia referendaria, persa per un soffio, tesa ad evitare le privatizzazioni della Centrale e di Acea: vere e proprie pietre miliari sulla strada della privatizzazione di beni e servizi pubblici locali. Il 26 gennaio 1998 veniva stipulato il contratto di compravendita della quota di maggioranza della Centrale in favore della Cirio Spa: il 75% del capitale totale era ceduto al prezzo di 80 miliardi di lire (con il 5% che restava al Comune e il 20% riservato ad una partecipazione di produttori locali di latte fresco). Lo schema di contratto prevedeva tra gli impegni dell’offerente quello di non cedere a terzi le azioni acquistate per un periodo non inferiore a cinque anni, pena la risoluzione automatica del contratto di compravendita ed il pagamento di una pesante sanzione (pari al prezzo di acquisto della quota stessa). Viceversa, dopo pochi mesi, la Cirio Spa cedeva l’acquisita quota di maggioranza alla Parmalat per 183 miliardi: più del doppio di quanto lo stesso gruppo aveva versato poco prima nelle casse comunali! Va sottolineato che il prezzo concordato da Cragnotti col Comune di Roma aveva incluso il costo di 440 dipendenti, la metà dei quali venne tuttavia assunta in base ad un accordo sindacale dallo stesso Ente locale capitolino. Più che giustificato, dunque, è sopraggiunto l’atto di diffida e messa in mora notificato al Comune di Roma a luglio del 2000 da parte di Ariete Latte Sano Spa, altro gruppo partecipante alla gara ritenutosi vittima di “manifesta ingiustizia”. Assai meno giustificabile il silenzio con cui il Comune ha risposto a tale sollecitazione: nella fattispecie, l’incomprensibile omissione dell’annullamento del contratto violato, la mancanza di un’adeguata azione di rivalsa economica e autotutela (pur prevista nelle clausole contrattuali) nei confronti del gruppo di Cragnotti, oltre ovviamente alla carenza di spiegazioni a motivare – sul piano della trasparenza della gestione amministrativa – il prezzo di “svendita” di un pezzo di patrimonio pubblico.
Altrettanto istruttivo è il percorso a ostacoli che ha fatto precipitare la decisione di privatizzare la Centrale: in sostanza, come si evince dal racconto fatto al periodico ‘Carta’ dall’attuale capogruppo del Prc al Comune di Roma Adriana Spera, si è consentito che un bene pubblico andasse in malora per poi essere costretti a vendere. Nel 1987 le attività di distribuzione del latte e di riscossione dei relativi introiti erano state esternalizzate e affidate a due società di proprietà dei Senatra (una famiglia di imprenditori siciliani), le quali per alcuni anni distribuirono il latte ma non versarono alla Centrale neanche una lira dei soldi introitati: in questo modo l’azienda romana arrivò a scavare un buco di bilancio di un centinaio di miliardi. Un tentativo del Comune di affidare ad altri le suddette attività fu vanificato da un ricorso dei Senatra, respinto dal Tar ma incredibilmente accolto dal Consiglio di Stato (estensore della sentenza l’ex ministro degli esteri Franco Frattini). Infine nel ’95 – dunque a ridosso dell’operazione di privatizzazione – l’assessore Lanzillotta giunge ad appaltare ad una nuova ditta, tramite trattativa privata, la distribuzione del latte e la riscossione: il nome della società è ‘Freschezze’, ma – particolare non trascurabile – i suoi gestori sono sempre i Senatra. Del seguito di questa storiaccia, fatta di operazioni fallimentari e sperpero di risorse pubbliche, si è già detto: ora essa è appesa ad un’imminente sentenza giudiziaria.
Non è male ricavare da tutto ciò due righe di morale. Pensiamo che sarebbe fuori luogo ricondurre i fatti suddetti ad una mera questione di insipienza o superficialità amministrativa. La verità è che il furore ideologico può rendere cieco anche il più abile degli amministratori. Ciò valeva allora e, a quanto pare, continua a valere al livello del governo nazionale per Rutelli e Lanzillotta, ancora oggi instancabili promotori dell’ortodossia liberista. Non si tratta affatto di difendere o coprire l’inefficienza, pubblica o privata: il punto è che la foga privatizzatrice può risultare deleteria dal punto di vista della stessa efficienza aziendale, oltre che da quello della trasparenza amministrativa. La vicenda sopra descritta costituisce un caso esemplare a smentita della convinzione che le logiche (lecite e illecite) del mercato capitalistico possano essere come tali garanti del bene e degli interessi di una comunità. Quale che sia l’esito giudiziario della storia suddetta, l’auspicio è che in generale si sia in grado oggi di sventare, sul piano delle normative nazionali, quel che non si è riusciti ad evitare allora al livello delle politiche locali concernenti beni e servizi pubblici.