Agli ordini del Pentagono

L’amministrazione Bush ci ha ripensato: mentre prima era contraria all’invio di altre truppe in Afghanistan, ora ritiene che «dislocare altre truppe fuori Kabul può contribuire alla sicurezza del paese». Lo hanno dichiarato al New York Times (30 agosto) alcuni funzionari, spiegando il perché: la costruzione dell’esercito afghano va a rilento (alla fine dell’anno comprenderà solo 3-4 mila soldati) e i signori della guerra continuano a erodere l’autorità del governo centrale di Kabul. E’ necessario quindi inviare altre truppe, che dovrebbero presidiare le maggiori città o, partendo da Kabul, compiere incursioni nei punti caldi. Gli Stati uniti «fornirebbero il sostegno, ma non truppe». A inviarle dovrebbero essere i paesi alleati. L’Italia, in base a una richiesta fatta direttamente da Bush a Berlusconi, dovrebbe mandare in Afghanistan un migliaio di soldati. Essi andrebbero a sostituire i Royal Marines inglesi, che vengono ridislocati nel quadro dei preparativi di guerra contro l’Iraq. Il contingente italiano dovrebbe essere formato principalmente da reparti della Folgore, appartenenti al 9° reggimento d’assalto Col Moschin e al 185° reggimento Rao, e da reparti del reggimento alpini-paracadustisti Monte Cervino. Il loro ruolo sarebbe differente da quello dei 300 militari già impegnati nella forza internazionale di sicurezza dislocata a Kabul a protezione del governo Karzai: primo, perché sarebbero impiegati in operazioni di combattimento su tutto il territorio; secondo, perché sarebbero sotto il diretto comando statunitense. I paracadutisti del Col Moschin, definito «punta di diamante di tutta la forza armata», e gli alpini-paracadutisti sarebbero incaricati di rastrellare zone montuose e compiere incursioni nei villaggi alla ricerca di presunti taleban e terroristi indicati dal comando Usa. Quelli del 185° reggimento avrebbero il compito di ricercare gli obiettivi e segnalarli agli aerei Usa perché vengano colpiti.

E’ quindi una missione di nuovo tipo, che – ha promesso il ministro della difesa Martino – dovrà essere approvata dal parlamento, non si sa se in aula o solo in commissione difesa. Ci si chiede a questo punto: che posizione prenderà l’Ulivo? Inviare in Afghanistan una forza da combattimento, mettendola agli ordini del Pentagono, significa vincolare ulteriormente il nostro paese alla strategia statunitense e contribuire alla preparazione della guerra contro l’Iraq. Si tratta quindi per l’Ulivo di fare una scelta che va al di là del fatto contingente. Ci sono al suo interno forze decise a cambiare rotta?

In gioco, ancora una volta, ci sono le basi stesse della nostra democrazia. La colonna portante del rifiuto della guerra quale mezzo di soluzione delle controversie internazionali viene sgretolata dal «Nuovo modello di difesa»: non semplicemente una ristrutturazione delle forze armate, ma l’istituzionalizzazione di una nuova politica militare, basata sul concetto anti-costituzionale della difesa degli «interessi esterni» con la forza armata, e contestualmente di un nuovo tipo di politica estera nel ruolo di subpotenza sulla scia della «potenza globale» statunitense.

Un altro aspetto è il costo di tali operazioni. Esso consiste non solo nel pagare a ciascun militare una indennità di missione di migliaia di euro al mese fuori busta ed esentasse, ma nel sostenere l’enorme costo della macchina logistica e dell’acquisizione di sistemi d’arma idonei alla «proiezione di forze» in lontani teatri bellici. Tanto per dare un’idea, i nuovi aerei 767 Tanker Transport (aerei cisterna e da trasporto), che l’aeronautica italiana acquisterà per le operazioni a lunga distanza, costano a seconda della versione dai 150 ai 225 milioni di dollari ciascuno (da quasi 300 a oltre 400 miliardi delle vecchie lire). Al salone aerospaziale di Farnborough, il 26 luglio, il ministero della difesa e Alenia aeronautica hanno firmato un accordo con la statunitense Boeing che stabilisce la partecipazione italiana al programma del 767 Tanker Transport, con un costo stimato in 1.300 milioni di euro (oltre 2.500 miliardi di lire).

Questo e altri accordi – che accrescono la capacità offensiva delle nostre forze armate e fanno lievitare la spesa militare, già cresciuta nel decennio 1990-2000 da 28 mila a 43 mila miliardi di lire annui a scapito delle spese sociali e degli investimenti produttivi – vengono ignorati da quasi tutte le forze politiche e sindacali di opposizione. Giusta è la lotta per l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma non sufficiente a difendere la democrazia se ci si dimentica dell’articolo 11 della Costituzione.