Conviene ricondurre la discussione sulla missione italiana in Afghanistan al suo naturale punto di partenza, che rischia di essere oscurato dal contrasto delle ragioni e dei comportamenti. In Afghanistan è in corso una guerra. Non una «operazione di polizia internazionale». Non un «intervento umanitario». Una guerra. Con oltre 25 bombardamenti pesanti al giorno (oltre il doppio che in Iraq) e un totale di morti civili che supera abbondantemente le 200 mila unità. Lo ammettono tutti, contrari e favorevoli. Riconoscendo con ciò che la formale e tardiva copertura dell’Onu e la sempre più esile distinzione tra Enduring Freedom e missione Isaf non cancellano il fatto che le operazioni militari sono pianificate e dirette dal Pentagono e dalla Nato.
Questo dovrebbe bastare. La Costituzione del ’48 è ancora viva. Qualche giorno fa la grande maggioranza degli italiani ha espresso la volontà di difenderla da radicali stravolgimenti. E la Costituzione proibisce di portare il paese in guerra. Il fatto che in questi quindici anni l’Italia abbia preso parte ad altre avventure belliche non è una scusante. Non riduce l’illegittimità di questa guerra e dell’eventuale decisione di proseguirla. Perché non lo si dice più? Perché si subisce con rassegnazione un insulto alla legge fondamentale della Repubblica?
Dottrina neocon
Ma la collera non è meraviglia. Sin da prima dell’insediamento del governo sapevamo che le forze prevalenti nel centrosinistra sono favorevoli a una concezione delle relazioni internazionali che assegna alle armi un ruolo decisivo nella «modernizzazione democratica». Nell’aprile del ’99 l’attuale ministro degli Esteri, allora a capo del governo italiano, concorse all’approvazione del «nuovo concetto strategico» che trasformava la Nato in un’alleanza offensiva, abilitata a intervenire in tutto il mondo. Poche settimane prima, il suo esecutivo aveva dato avvio alla partecipazione in grande stile dell’Italia ai «bombardamenti umanitari» sul Kosovo. Per venire agli ultimi tempi, non si contano le esternazioni dei dirigenti dell’Ulivo a sostegno di un interventismo democratico che è la dottrina neocon corretta in chiave multilateralista. Consideriamo queste posizioni sbagliate e gravissime le responsabilità di chi adotta comportamenti conseguenti. Ma non possiamo dire che le scelte dei «moderati» dell’Unione ci sorprendano.
Piccoli segnali
Ci sorprendono invece, e ci allarmano, le posizioni assunte sin qui da alcune forze della sinistra alternativa, da partiti che nel corso della passata legislatura hanno sempre votato contro la partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan e che ancora dichiarano di considerare indispensabile la «discontinuità» rispetto alle politiche del centrodestra.
Il disegno di legge del governo contiene qualche concessione, frutto della mobilitazione delle forze pacifiste in Parlamento e nel paese. Non vi sarà un incremento del contingente italiano (benché il Ddl preveda un aumento dell’impegno italiano per Enduring Freedom). E sarà allestito un osservatorio parlamentare per monitorare le 29 missioni italiane all’estero. Ma chi può seriamente parlare di un cambiamento di rotta, se persino il ritiro delle truppe dall’Iraq è compensato dalla decisione di porre unità navali italiane sotto il comando centrale delle forze navali Usa, a presidio del pompaggio del greggio iracheno? Anche la brillante trovata della «riduzione del danno» (che, applicata alla guerra, tradisce il rifiuto di farsi carico del terribile peso delle parole) dimostra che si è in linea con le decisioni imposte da Washington e assunte dalla destra.
Si subisce una drammatizzazione pretestuosa della discussione (perché mai un’eventuale – improbabile – bocciatura del Ddl dovrebbe comportare una crisi? perché mai una crisi – del tutto inverosimile – dovrebbe riportarci alle urne? e perché – se il punto è la salvaguardia del quadro politico – il governo esclude di porre la fiducia, a cui pure fa regolarmente ricorso?). Si accetta un uso unilaterale e improprio del principio di lealtà nell’ambito della coalizione (dimenticando che il programma dell’Unione nulla dice sull’Afghanistan, mentre prevede il voto disgiunto sulle missioni). Si avalla un clima di intolleranza che, nel criminalizzare qualsiasi espressione di dissenso, mette a repentaglio l’esistenza stessa della sinistra critica. Soprattutto, si rischia di dar l’impressione di votare in modo diverso su una questione come la guerra a seconda che si stia all’opposizione o al governo.
Perché tutto questo? Cosa sta succedendo nella sinistra italiana? Che cosa viene emergendo sullo sfondo dello scontro sulla guerra afghana? E perché, piuttosto che affrontare nodi che coinvolgono questioni vitali per tutto il movimento, si cede alla tentazione di scorciatoie autoritarie (il cosiddetto «vincolo di mandato»), che rischiano di realizzare, nei fatti, il disegno autoritario di chi vorrebbe trasformare il Parlamento nella cassa di risonanza delle decisioni del governo e i partiti in una docile cinghia di trasmissione?