Sulla missione in Afghanistan inizia la fase della trattativa. Dopo la «rottura della comunità politica», drammaticamente sottolineata dalla segreteria di Rifondazione comunista, ora i punti sembrano due. Primo: capire se – e come – i nove senatori «dissidenti» potranno tenere in vita il governo e anche se stessi. Secondo: se il voto al senato non si trasformi nel pretesto per attrarre, all’interno della maggioranza, le «frange» centriste. Isolando così gli esponenti più «radicali». Il bivio sembra soprattutto in una decisione: che il governo chieda, oppure no, la fiducia sul ddl.
Considerata la maggioranza risicata, in teoria, i nove senatori potrebbero mettere in pericolo il governo. Ma è vero il contrario: quasi nessuno sembra volersi accollare questa responsabilità. Piuttosto, chiedono di poter votare a favore ma senza smentire se stessi. Sono proprio i «dissidenti» a lanciare la scialuppa di salvataggio. «Il mio dissenso rimane – dice Claudio Grassi (Prc) – ma resta anche la mia lealtà al governo : se ci sarà la fiducia, voterò si». «Voterò sì solo se il governo metterà la fiducia», firmato Massimo Villone, senatore Ds. «Non sarò io a far cadere il governo, se pone la fiducia», rassicura il Giampaolo Silvestri (Verdi).
E’ la «fiducia», quindi, il punto di partenza. Poi tutto potrebbe filare liscio: basterebbe un riconoscimento formale al dissenso pacifista. Lo dicono anche i più «duri» e polemici, come Gigi Malabarba: «Saremo “soltanto” nove senatori – esordisce il senatore del Prc – ma rappresentiamo una sensibilità diffusa. Al senato il problema c’è: se mi imporranno la fiducia, deciderò dinanzi un ricatto, e se dicessi già oggi cosa farò, sarei il protagonista di una pantomima: indicherei all’altra parte quali strumenti usare. Ma se in aula ci dicono: non integriamo gli emendamenti nel documento, però li prendiamo in considerazione, per affrontare il problema in sede Nato, allora siamo di fronte a un’ipotesi percorribile». E ancora: c’è il senatore del Prc Franco Turigliatto che vuole «un riconoscimento» delle posizioni pacifiste con un atto parlamentare, i dissidenti Verdi che chiedono un incontro con Prodi. Insomma: ponendo la fiducia, e offrendo un «riconoscimento», tutto potrebbe rientrare. Ma forse c’è dell’altro.
E infatti Malabarba sospetta: «La questione delle missioni militari serve solo a farci passare per capri espiatori. Il problema è quello di mutare la coalizione allargando ai centristi: c’è già chi parla di incarichi ministeriali a Follini». «Malabarba probabilmente ha ragione – replica Giovanni Russo Spena (Prc) – ma non è un buon motivo per facilitargli il compito». E se Malabarba «ha probabilmente ragione», allora possiamo ipotizzare anche un altro scenario. Quello in cui il governo, la fiducia, non la chiede. I nove votano contro, Prodi resta in piedi comunque, col voto della maggioranza, e si apre il fronte centrista. Gli «alibi» per non mettere in gioco la fiducia esistono. Il governo ha già posto la fiducia sul cosiddetto «spacchettamento» dei ministeri, probabilmente la chiederà anche per la manovra finanziaria e, per questioni di «immagine», sull’Afghanistan potrebbe evitare. Inoltre, la fiducia non troverebbe il pieno consenso del presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano, sulla politica internazionale, preferisce consensi più ampi. Infine: Prodi potrebbe gestire personalmente il traghettamento dei centristi verso la maggioranza.
Intanto, nonostante le rassicurazioni piovute in giornata, il ministro Vannino Chiti, che ha avuto un «mandato esplorativo», sulla fiducia non s’è mostrato ottimista. E anche Prodi, sebbene appaia propenso, secondo fonti attendibili è invece piuttosto riluttante.