A due settimane dal voto, la situazione nel paese è ancora fuori controllo
Un candidato della regione di Kandahar, in Afghanistan, per le elezioni parlamentari del 18 settembre prossimo rapito e ucciso dai Talebani, insieme a un capo-distretto e a tre poliziotti: un segnale inquietante del clima in cui si va alla seconda campagna elettorale (dopo quella per la elezione del presidente Karzai) tenacemente voluta dagli Usa per dimostrare che il «cammino verso la democrazia» va avanti.
Nonostante questo ed altri incidenti, le autorità escludono che il voto possa essere rinviato, e la cosa è più che ovvia: Bush ha già abbastanza grane in Iraq e in casa propria, con la catastrofe di Katrina, per poter ammettere che anche in Afghanistan le cose non vanno affatto secondo i desideri e i proclami della Casa Bianca. Ma questa è la realtà, e le analogie tra Afghanistan e Iraq, pur nella diversità dei tempi e delle situazioni, sono eloquenti.
In Iraq a due anni e quattro mesi dalla sconsiderata affermazione di Bush sulla «missione compiuta» i militari americani uccisi sfiorano ormai i duemila, e lo stillicidio delle perdite continua; in Afghanistan dopo tre anni e mezzo i caduti americani sono stati 49 dall’inizio di quest’anno e gli attacchi si sono intensificati nelle ultime settimane. In Iraq con il voto del gennaio scorso, cui ha partecipato sì e no un terzo degli iracheni, è stata eletta una Assemblea nazionale come la volevano gli Usa, cioè dominata da curdi e sciiti – in diversa misura disposti a collaborare con gli occupanti – e con la esclusione dei sunniti e più in generale di tutti coloro che si richiamano alla resistenza contro le forze anglo-americane; in Afghanistan le presidenziali di un anno fa sono state organizzate perché venisse eletto l’uomo scelto dagli americani, cioè Hamid Karzai, il quale ancora oggi esercita di fatto sì e no i poteri di sindaco di Kabul, grazie alla protezione dei soldati stranieri. L’unica differenza è che gli afghani sono andati alle urne in misura molto maggiore degli iracheni, il che indica certo una voglia di partecipare; ma bisogna ricordare che in quel Paese non si era mai votato, neppure in modo “pilotato” (a differenza che in Iraq), e che sulle contestazioni alla regolarità del voto è stato steso un rapido quanto interessato velo di silenzio.
Non basta dunque sbandierare il numero dei candidati e delle donne iscritte nelle liste per garantire a priori che si tratterà di una prova di democrazia e che uscirà dalle urne un parlamento davvero rappresentativo della volontà del popolo afghano e non invece degli interessi da un lato della strategia Usa nella regione e dall’altro di quei “signori della guerra” che di fatto esercitano il potere fuori Kabul. Le cifre danno comunque 12 milioni di elettori iscritti alle urne, per il 44 per cento donne, e un numero complessivo di seggi da assegnare – fra parlamento e amministrazioni locali – di 6mila, dei quali 600 da assegnare alle donne (cioè il dieci per cento). Alle elezioni assisteranno 200 osservatori stranieri, ma bisogna vedere quanto potranno «osservare» nelle provincie, specie quelle dove sono attivi i Talebani (l’anno scorso di fatto gli osservatori svolsero il loro compito quasi soltanto a Kabul). Le schede elettorali sono stampate in Europa e il Canada ha inviato 140 milioni di bottigliette di inchiostro indelebile per evitare la ripetizione del voto, che è nelle condizioni di analfabetismo e caos anagrafico di un Paese come l’Afghanistan il broglio più facile e scontato. Va ricordato che nelle elezioni presidenziali del 2004 fu contestato appunto che in molti seggi l’inchiostro usato non era affatto indelebile e che dunque molti elettori avevano votato più volte, ma le proteste e i ricorsi furono, come si è detto, rapidamente accantonati perché Karzai “doveva” essere eletto e naturalmente doveva esserlo “democraticamente”.
A vigilare sul voto saranno circa 40mila soldati americani e della Nato (inclusi gli italiani), ma il controllo più efficiente sarà ancora una volta quello sulla città di Kabul, visto che nelle provincie la situazione è molto più fluida e precaria soprattutto nel sud e nel sud-est dove l’attività dei Talebani è in aumento. I cosiddetti «studenti islamici» deposti con la guerra del 2001 hanno seguito una duplice strategia pre-elettorale, non è chiaro se in modo concordato o meno: i gruppi armati attaccano i candidati (con quello di ieri ne sono stati già uccisi quattro) e le manifestazioni elettorali e minacciano chi si recherà a votare; ma alcuni esponenti del vecchio regime hanno accettato l’offerta di Karzai di «tornare nella legalità» e partecipare alla vita politica, presentandosi candidati. Fra loro c’è addirittura in lista Muttawa Kil, già ministro degli Esteri. Particolare significativo: anche a Kabul, che è l’unica città dove le donne possono circolare, almeno in parte, liberamente senza burqa grazie alla massiccia presenza delle forze Nato, i manifesti delle loro candidate vengono sistematicamente strappati o imbrattati.
L’ultimo episodio di violenza è avvenuto nella zona di Kandahar, la città del sud già roccaforte dei Talebani e residenza del loro leader Mullah Omar, tuttora uccel di bosco. Il candidato Khan Mohammad, in corsa per un seggio del Consiglio provinciale, è stato sequestrato venerdì da uomini armati insieme al capo del distretto di Ghorak e a tre poliziotti di scorta. I Talebani hanno rivendicato il sequestro affermando che un loro tribunale «avrebbe processato» i cinque; meno di 24 ore dopo il loro portavoce Abdul Latif Hakimi ha comunicato per telefono alla Reuters la avvenuta «esecuzione»: «gli abbiamo sparato», ha detto con laconico cinismo. Operazioni di rastrellamento delle forze Usa sono in corso nel sud e nel sud-est del Paese.