Afghanistan: non ce la contano giusta

“La guerra in Afghanistan non è un appendice della lotta antimperialista. I taliban hanno nel loro programma, lo affermano i loro documenti, la soppressione dei comunisti”. Lo ha detto Massimo D’Alema il 2 Marzo in occasione di una conferenza tenutasi alla Farnesina. Le argomentazioni del Vice-Presidente del Consiglio più che a Vernetti, Ranieri o a qualche direttore di uffici studi internazionali, alla crema del C.O.I, a opinionisti e bella gente, questa volta erano indirizzate all’ esterno, ai compagni da imbarcare nell’avventura del Partito Democratico.
Una volta tanto i destinatari delle affermazioni del baffo di Gallipoli non sono i sostenitori in grisaglia del Partito Amerikano ma una certa “sinistra”. Rossi e Turigliatto a parte.
Una sinistra immatura, che non serve e che non ci stà né per l’ampliamento della base Ederle 2 di Vicenza né per Kabul, rumorosa, indigesta ai Palazzi del Potere.
Qualcosa che assomiglia a un arcipelago, che va dallo spontaneismo organizzato alle sezioni, dai militanti che restano al pezzo a quelli che hanno mollato, e un po’ perché, quando va bene, c’è da mettere insieme pranzo e cena per moglie e figli anche nella terza settimana del mese.

Come continua a ripetere, con accenti diversi ed eguale sostanza, la troika Prodi, Parisi e D’Alema, l’Afghanistan è un impegno che non può essere disatteso, pena la perdita della nostra credibilità a livello internazionale.
Venir via da Kabul e da Herat, affermano, comprometterebbe l’immagine dell’Italia, ci isolerebbe dall’Onu, dall’Europa e dalla Nato.
Sarebbe insomma un disastro. Ci potremmo meritare il marchio dell’infamia della cosiddetta Comunità Internazionale quando c’è da portare a termine un programma di intervento umanitario, di ricostruzione e di appoggio, si sostiene, al legittimo Governo Karzai (della Unocal di Cheney ).

A quanto ci risulta in Afghanistan ci stanno gli Usa, la Gran Bretagna e l’Alleanza Atlantica con i suoi 23 rimorchiati, tra vecchia e nuova Europa, allargata ad est con contingenti, il più delle volte, di qualche decine di militari. Gente ex Muro di Berlino, roba spendibile sul terreno di guerra in cambio di nuovi piani Marshall, di lustrini che non arriveranno.
A Kabul non ci sono né indiani, cinesi o pakistani né “aspiranti pacificatori” di altri Stati dell’Asia.
E poi per dirla tutta all’Onu sono rappresentati 173 Paesi compreso Tonga e le Isole Marshall .
Italia isolata senza intervento militare a Herat e a Kabul?
Balle come la Conferenza Internazionale sull’Afghanistan che non vedrà mai la luce. Il Dipartimento di Stato e l’Amministrazione Bush non la vogliono.

Mentre il 10 Febbraio il pupillo del Prof. Nomisma, e tutto il resto, fa ruzzolare sui TG e sui quotidiani la notizia che rimarremo da quelle parti … almeno (avverbio estensivo) fino al 2011 e Diliberto bolla come irresponsabili, per la tenuta del governo, le dichiarazioni del Ministro della Difesa rilasciate a margine del vertice Nato di Siviglia, nei giorni seguenti si darà il via libera alle fibrillazioni che si concluderanno in un enormità di passaggi aprendo la strada al “centro”. Un buon giocatore di scacchi deve prevedere le quattro o cinque mosse successive.
Le cadute di stile e di immagine di fronte all’opinione pubblica del Paese saranno clamorose.
Un opinione pubblica che reagisce con sconcerto e preoccupazione al vecchio che ritorna, questa volta senza veli. Alchimie allo scoperto, da Prima Repubblica. Il riferimento è a baracche, burattini, acquisti e patteggiamenti alla Pallaro e alla Follini.

Il 28 Febbraio, sono passati una manciata di giorni, giusto il tempo di organizzarsi, ed ecco che Martin Erdmann , il Vice di Hoop De Scheffer Segretario Generale della Nato, si presenta davanti al Parlamento di Bruxelles per comunicare agli eurodeputati che le “nazioni libere” si dovranno preparare a restare in Afghanistan per “decenni”.
Si avete capito bene.
Parisi ha pappagallato con qualche prudenza dialettico-politica (2011) solo le anticipazioni che già correvano nei corridoi dell’Alleanza Atlantica?

Un bel programmino di decenni di “occupazione permanente” Usa-Nato di un territorio lontano migliaia e migliaia di chilometri dall’ “Occidente”. Un mondo con comportamenti culturali, sociali e storici “altri” da redimere con la democrazia. Che facciamo forse fatica a capire ma radicati e accettati da centinaia di anni. Passato e presente.
Diversità da annientare in nome di una pace che dal 2001 seppellisce sotto un diluvio di bombe uomini, donne, anziani , bambini e villaggi dell’Afghanistan.
Morte e distruzione senza rimbalzi nella cronaca, senza riflettori, telecamere e corrispondenti.
La povertà che non deve essere vista per poter continuare a dipingere il nemico come un mostro agguerrito e assetato di sangue dove ci si organizza per seppellire sotto travi di legno e di mattoni di fango di poveri villaggi i corpi di qualche migliaio di straccioni frugali con il Kalaniskov.

“Penso -aggiungerà- chiudendo l’intervento che se guardiamo ad altri teatri (insomma zone di guerra per il capo in seconda dell’olandese con l’elmetto di klevar e il coltello tra i denti) come Bosnia Erzegovina e Kosovo, dove noi tutti siamo impegnati da oltre dieci anni, allora ritengo che dovremo imparare a pensare in termini molto, molto più lunghi rispetto ai Balcani per garantire (ci risiamo) la sicurezza e la ricostruzione di quel Paese.
Ci viene in mente, chissà perché, il via libera ai bombardamenti, anche all’uranio impoverito, sulla Serbia, questa volta senza l’autorizzazione del Palazzo di Vetro dei “liberatori atlantici”, sotto la cappella di Clinton, e quelli dei Tornado IDS dell’Aeronautica Militare Italiana su Uresevac per un totale compreso, nel Kosovo, di oltre 10.000 morti ammazzati.
Stima esplicitata da Olmert, uno che in materia se ne intende, per rispondere a chi si lamenta, raramente, per uscire dal torpore paralizzante del menefreghismo, di qualche caduto palestinese sotto i colpi di Tsahal a Gaza e in Cisgiordania. Contabilità. Concorrenze.
L’ Iraq è lì con i suoi 2 milioni di morti dal 1991, di cui 850.000 minori da zero a sei anni, a ricordarci che non ci sono ancora all’opera né Giudici né Corti di Giustizia Internazionali che facciano bene il loro lavoro.