Afghanistan, morire per Karzai

Ieri alle nove e quarantacinque locali fra Delaram e Vashir, Afghanistan, settenta automezzi Lince erano in colonna nella valle del Gullistan per andare a costruire una base avanzata. C’è stata un’esplosione fortissima provocata da uno Ied, gli ordigni rudimentali che in quella Santa Barbara a cielo aperto che è il Paese dei Signori della Guerra possono essere costruiti da chiunque. Cinque soldati italiani sono stati investiti in pieno, poi è giunto l’attacco con armi leggere dei Taliban sempre più sfrontati, aggressivi, forti. Quattro alpini sono deceduti, il quinto è ricoverato nell’ospedale di Delaram con ampie ferite soprattutto alle gambe. Sono le trentaquattresime vittime della missione italiana in Afghanistan dal 2004, dodici quest’anno. E sono le ventiquattresime che il contingente dell’Isaf ha registrato nei primi nove giorni d’ottobre, mentre quel cimitero che è diventato la missione internazionale conta 570 morti dall’inizio di questo terribile 2010.
Si registra una stridente discrasia fra quello che il generale Massimo Fogari dichiarava a commento dell’attacco riguardo al rapporto con la popolazione locale, al controllo del territorio, all’utilità della missione, e la realtà delle cose. Le posizioni ufficiali, in linea con la nota della Farnesina, che ha lanciato l’ennesimo laconico messaggio del Ministro Frattini “La situazione è difficile ma la missione serve”, entrano in aperta contraddizione col succedersi di eventi sia militari sia politici. I primi mostrano un’offensiva talebana massiccia e crescente e la notevole capacità di spostamento dei guerriglieri. L’area occidentale di Herat e Farah, controllata dai reparti italiani, subisce più attacchi perché lì si concentrano i combattenti che trasmigrano da altre zone. Però tutti i quadranti operativi sono terreno di scontro giornaliero, tanto che a sud soldati americani e britannici, a nord i tedeschi continuano a morire. L’offensiva è generalizzata e, gli osservatori più attenti, a dispetto della propaganda dei governi occidentali, sottolineano come in questa fase i Taliban si sentano fortissimi e vittoriosi perché coi mezzi di cui dispongono riescono a portare morte e paura fra i soldati Nato. Mentre quest’ultimi poco e nulla riescono a ostacolare il ‘colpisci e fuggi’ nemico. Sul fronte dell’evoluzione politica le recenti elezioni (i risultati sono attesi per fine mese) su cui il governo Karzai, imbeccato da Obama, fondava una campagna di “normalizzazione”, risultano un totale flop. Non solo perché i talebani ne abbiano impedito il regolare svolgimento, avendo la meglio sulle armi dell’Isaf che difendevano i seggi. Per la compravendita del voto a un dollaro scarso attuata da molti candidati dei Signori della Guerra, per le minacce e i palesi dubbi sulla sua libertà e veridicità già all’avvio delle operazioni di spoglio la credibilità della consultazione è parsa nulla. Addirittura peggiore della farsa dell’agosto 2009 che mantenne Karzai al potere. In più, l’idea suggerita prima dell’estate da Obama al presidente afghano di cercare un dialogo con un fronte talebano moderato, poi abbandonata e riaffacciatasi nelle scorse settimane ora vedrebbe ben pochi spazi. Al di là di nuclei di combattenti-predoni, come li definisce lo stesso fronte talebano, il suo comando centrale della Shura di Quetta che fa capo al mullah Omar pone come punto imprescindibile per qualsiasi trattativa con Karzai e altri capibastone etnici la dipartita del contingente d’occupazione occidentale. Ancor più oggi che la forza delle armi esalta la loro resistenza e la possibilità di condizionare presente e futuro. Una conferma, se ce ne fosse bisogno, viene dall’attentato di venerdì 8 a una moschea di Takhar dov’è rimasto ucciso Mohamad Omar, il governatore della provincia del nord Qonduz. Area attraversata da una via strategica per i rifornimenti dell’Isaf che lì dovrebbe mostrare i muscoli. Invece nella zona imperversano i Taliban che da Uzbekistan e Tagikistan ricevono ricambio di uomini.