Afghanistan, il ritorno dei Talebani

Migliaia di miliziani sono attivi nelle province meridionali di Kandahar, Helmand, Zabul e Uruzgan. Nelle ultime tre settimane gli agguati, gli attentati e gli scontri con le forze governative e le truppe della missione internazionale Isaf hanno già provocato circa cinquecento morti
La riscossa dei talebani inizia là dove, cinque anni fa, finì la loro dittatura. A Kandahar, l’ultima città che per qualche settimana rimase sotto il controllo dei mullah dopo la caduta di Kabul. In quel dicembre del 2001 Omar e i suoi parvero svanire nel nulla, mentre la loro ex-roccaforte, spesso definita addirittura la capitale spirituale del regime, passava sotto il controllo delle milizie pro-Karzai sostenute dagli americani. Che fosse una ritirata strategica l’avevano capito tutti. Ma i loro nemici si illudevano forse che diventasse definitiva. Ora invece li vedono tornare prepotentemente all’offensiva. L’escalation di agguati, attentati, scorrerie va avanti da tempo, ma è nell’ultimo mese che l’attività armata ha avuto un’impennata significativa. Più di 500 morti nel giro di tre settimane, attacchi portati contemporaneamente in diverse località grazie ad una evidentemente accresciuta disponibilità di uomini e facilità di movimento.
Non controllano nessuna grande città, ma nella stessa Kandahar al tramonto le strade si svuotano. «Da un momento all’altro -confida un residente- la gente si attende un’esplosione, una sparatoria». L’insicurezza domina sovrana la notte, ma di giorno non è certo il regno della serenità. Se si esce dall’abitato e ci si avventura nei villaggi circostanti si può avere l’impressione di avere oltrepassato senza accorgersene un invisibile confine. La provincia di Kandahar e quelle limitrofe di Helmand, Zabul e Uruzgan, sono solo nominalmente ancora in mano all’amministrazione centrale. Recenti resoconti giornalistici e testimonianze degli operatori internazionali presenti in loco descrivono una sorta di coabitazione ostile fra funzionari governativi timorosi di uscire dai loro uffici ed una rete di governatori e capi di polizia di una amministrazione alternativa messa in piedi dai talebani. Questo è particolarmente evidente nei sei distretti della provincia di Uruzgan, dove i ribelli controllano le principali vie di comunicazione con l’eccezione della strada che congiunge il capoluogo di Tirin Kot a Dehrawod, luogo di nascita del mullah Omar. Il quale, da uno dei suoi nascondigli segreti (chi dice in Uruzgan, chi addirittura in Pakistan, forse a Karachi), torana ogni qualche mese a farsi vivo esortando i seguaci alla lotta. L’ultimo messaggio, qualche giorno fa, per celebrare le gesta eroiche del defunto Al Zarqawi, capo di Al Qaeda in Iraq.

Le quattro province afghane meridionali sono quelle in cui a partire dal mese prossimo è previsto un massiccio dispiegamento aggiuntivo di truppe inglesi olandesi e canadesi nell’ambito della missione Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza), che gradualmente dalla capitale Kabul si sta estendendo ad altre zone del Paese. Ufficialmente lo scopo è quello di garantire adeguata protezione alle cosiddette Prt (Squadre provinciali di ricostruzione). Al contingente italiano ad esempio è assegnata l’area di Herat, che fortunatamente per noi si trova molto più ad ovest e fuori dalla tradizionale zona di influenza talebana.
È ovvio che per creare condizioni di sicurezza all’attività civile ed economica delle Prt, le truppe Isaf dovranno (e già sta accadendo) cimentarsi con la rinnovata minaccia degli «studenti del Corano». Che nelle province di Kandahar Uruzgan Zabul e Helmand agiscono al comando del mullah Dadullah, dato troppo precipitosamente per morto un mese fa dal governo di Kabul. Vivo e vegeto, nonostante abbia perso in combattimento una gamba, Dadullah sostiene di avere ai suoi ordini 12mila truppe. Probabilmente esagera, ma sono comunque più delle poche centinaia su cui poteva contare fino all’anno scorso.
Ed è questa la novità che preoccupa le autorità centrali e i governi occidentali amici: il pericolo non viene più solo da est, cioè dalle aree tribali alla frontiera con il Pakistan, dove l’opposizione armata non è mai venuta meno dopo la caduta del regime teocratico e dove gli americani hanno scatenato la caccia ai resti di Al Qaeda che va sotto il nome di Enduring Freedom.
Il pericolo ora arriva anche da sud e dall’interno della società afghana. Se è vero, come ammette Ahmad Wali Karzai, che oltre ad essere fratello del capo di Stato Hamid, presiede il Consiglio provinciale di Kandahar, che «la popolazione, pur non conservando un buon ricordo dei talebani, oggi si mantiene neutrale». E dunque sta a guardare, senza parteggiare né identificarsi con il nuovo regime. Anche perché, spiega Frances Vendrell, rappresentante speciale dell’Unione europea in Afghanistan, «molti governatori provinciali sono incompetenti e corrotti, e molti capi della polizia hanno legami con il narcotraffico ed i gruppi criminali».

Eccoci dunque alla radice del problema. L’opposizione armata al nuovo corso afghano guadagna terreno, grazie agli sbagli compiuti dai dirigenti del nascente Stato democratico e dai loro sponsor stranieri. «Anche se il Paese ora ha un presidente, un governo e un Parlamento legittimamente eletti, ci sono state gravi mancanze della comunità internazionale e delle autorità afghane nel procurare truppe, sicurezza e fondi per la ricostruzione alla popolazione pashtun del sud», proprio quella che a suo tempo aveva più arrendevolmente ceduto ai talebani, e avrebbe dovuto essere dunque curata con maggiore attenzione. Parola di Ahmed Rashid, forse il maggiore esperto di questioni afghane, e studioso del movimento talebano.
All’errore strategico iniziale di distrarre forze e risorse verso l’assurda guerra irachena, gli americani hanno aggiunto la scelta di privilegiare le operazioni dei reparti speciali a est, considerando come acquisita la fedeltà del sud al nuovo governo. Ma soprattutto è stata fallimentare la politica degli aiuti economici.