La vicenda afghana è assurta ad epicentro della discussione sul rifinanziamento delle missioni militari italiane e, più generale, sulle linee fondamentali della nostra politica estera. Come si evince dalle prese di posizione che quotidianamente compaiono sulla stampa, tale discussione attraversa le forze della coalizione di governo e la stessa sinistra di alternativa, rendendo problematica l’individuazione di un punto di caduta unitario al di là delle differenze di cultura politica e di orizzonte strategico. In tale contesto di difficoltà, ove è evidente che agiscono ineludibili questioni di principio come quella che attiene al binomio pace/guerra, è bene in ogni caso non sacrificare all’urgenza della decisione alcuni fatti essenziali.
Nel corso degli ultimi cinque anni, Rifondazione Comunista e la sinistra di alternativa nel suo complesso hanno ripetutamente espresso un voto contrario alla missione militare in Afghanistan. Tanto l’opzione di pacifismo integrale quanto quella più dichiaratamente “antimperialista” – che in quei voti si sono pienamente riconosciute – hanno respinto le motivazioni addotte a giustificazione dell’impresa bellica all’indomani dell’attentato alle Torri gemelle, evento che – come è stato detto – «ha cambiato la storia del mondo» e reso operativa la “guerra infinita e preventiva”. Come è ormai noto, i piani di tale sciagurata prospettiva erano contenuti in documenti ufficiali del Pentagono ben prima dell’11 settembre 2001 e, al di là della cosiddetta “lotta al terrorismo”, erano espressamente tesi a tutelare l’egemonia – militare, politica ed economica – degli Usa, avendo di mira chiunque minacciasse di contenderne il dominio planetario. Per noi, agganciarsi al carro Usa avrebbe dunque significato avallare giustificazioni false (come i fatti hanno poi ampiamente confermato) e rendersi complici del criminale massacro di popolazioni inermi. Si può comprendere come le suddette posizioni fossero nettamente divergenti da quelle espresse dall’attuale ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, il quale – muovendo dal riconoscimento di “emergenze umanitarie” e assecondando il principio neocons secondo cui «la sicurezza sta nell’espansione della democrazia» – concludeva con l’impossibilità «di escludere a priori il tema dell’uso della forza» e, contestualmente, con la possibilità di «intervenire efficacemente, superando la visione ottocentesca della sovranità nazionale».
Non capisco davvero come si possa oggi contestare – alla luce del drammatico acuirsi della crisi mediorientale – il carattere strumentale e politicamente devastante di questa “lotta al terrorismo”; e, per converso, registro nuove conferme circa il ben più concreto intento statunitense di penetrare in ambiti strategicamente decisivi – sotto il profilo militare e del controllo delle risorse energetiche – nel cuore del Medio Oriente e dell’Asia caucasica. Tuttavia mi chiedo: tali evidenti divergenze strategiche e di principio impediscono oggi di ragionare su una possibile soluzione concordata alla questione del rifinanziamento? Io dico di no: per la semplice ragione che non si deve essere necessariamente pacifisti integrali o militanti antimperialisti per essere disponibili a riconsiderare le scelte operate dal governo italiano su Iraq e Afghanistan. Ben sapendo che gli orientamenti generali non possono scomparire d’incanto (né sarebbe serio se così fosse), ritengo tuttavia che l’evoluzione dei fatti serva a sostenere il suddetto convincimento. Cosa dicono dunque questi fatti? Essi dicono innanzitutto che la strategia di guerra, quali che fossero i suoi fini dichiarati (esportazione della democrazia, lotta al terrorismo e così via millantando), ha mostrato oltre ogni ragionevole dubbio il suo vero volto: quello di occupazioni brutali, che – lungi dal portare progresso civile e sociale – hanno sfigurato territori e ucciso migliaia di civili, hanno saccheggiato ricchezze e profanato culture millenarie. L’odierna realtà dei fatti si riduce dunque alla tracotante presenza di un occupante che è incapace di organizzare protettorati locali autosufficienti e di delegare ad essi il governo dei suoi interessi, che è sempre più detestato dalle popolazioni locali nonché fermamente contrastato da una resistenza in armi ogni giorno più consolidata.
Non si tratta di interpretazioni ad hoc, costruite da noi comunisti. Per rendersene conto, basterebbe riflettere su quanto scrive Alberto Negri, corrispondente de Il Sole 24 Ore: «Le cronache da Kabul e da Baghdad evocano lo scenario di una rivolta arabo-musulmana estesa dalle rive dello Shatt el Arab fino agli altipiani dell’Hindukush. (…) In Afghanistan Karzai non è molto di più che il sindaco di Kabul, senza l’autorità per affrontare non solo le offensive dei Talebani ma anche una rivolta urbana. (…) L’intervento militare non ha risolto i problemi dell’Afghanistan e dell’Iraq e la diplomazia occidentale non ha affrontato neppure un nodo dell’aggrovigliato Medio Oriente, a partire dalla questione palestinese» (Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2006). Per tutto questo facciamo bene ad andar via – e presto – dall’Iraq: perché, come ribadisce ancora Alberto Negri (“Il fallimento dell’economia irachena”, intervista a Osservatorio Iraq) in Iraq non c’è alcuna ricostruzione, c’è solo un’insurrezione che si espande a macchia d’olio. Perché «gli stranieri non hanno più nessun ruolo in quel Paese, se non come “forze di sicurezza”. Come ricostruzione, come attività economica, a parte la zona curda, gli stranieri non ci sono più, e non da oggi ma da oltre un anno. Non ci sono uomini d’affari, non ci sono tecnici. Essi mantengono tutt’al più il ruolo esterno di appaltatori, come l’Halliburton». E quel che lasciano è «corruzione, appalti dati senza criterio e priorità, lavori mai o mal fatti». Sono queste le mirabili sorti e progressive dell’Occidente capitalistico?
In Afghanistan la situazione è, se possibile, anche peggiore e lo spartito suona sempre le stesse note: guerra e devastazione sociale. Anche qui la cosiddetta “ricostruzione post-bellica” si è rivelata «una delle più colossali truffe della storia», come è puntualmente documentato da Enrico Piovesana (www. peacereporter. net): un business da 15 miliardi di dollari, soldi finiti nelle tasche delle multinazionali occidentali (soprattutto statunitensi) selezionate dall’establishment. «Scuole: poche, carissime e tutte da rifare; cliniche che crollano, strade già distrutte». «Lo scandalo è che, nonostante i costi esorbitanti, le strutture cadono a pezzi perché costruite con materiali scadenti, su terreni instabili, senza fondamenta». Commenta Jean Mazurelle, direttrice della Banca Mondiale a Kabul: «In Afghanistan sono in corso sprechi e frodi di dimensioni enormi, un vero saccheggio condotto soprattutto da imprese private. E’ uno scandalo: mai visto nulla del genere in trent’anni di carriera». Per non parlare della «tragica farsa della lotta alla droga»: assieme agli scandali, fioriscono i campi di papavero (e lo stesso fratello del proconsole Karzai risulterebbe implicato nel narcotraffico). E’ dunque un caso se la guerriglia armata talebana «si dimostra di giorno in giorno più forte»?
Dal 2001 e successivamente dall’agosto 2003, da quando cioè la Nato ha assunto – per la prima volta nei suoi 54 anni di storia – il comando di un’operazione fuori dell’Europa (quella fatta passare appunto come “forza di pace Isaf”), l’Afghanistan è stato messo a ferro e fuoco. Ed oggi assistiamo ad una vera e propria escalation di guerra. Enrico Jacchia, responsabile del Centro di Studi Strategici della Luiss, non va per il sottile: «I nostri ragazzi sono in Afghanistan in zona di guerra per combattere e non per distribuire aiuti umanitari». Il quadro è fin troppo chiaro. Dobbiamo invertire la rotta, finché siamo in tempo: via dall’Iraq e via dall’Afghanistan. Questo chiediamo noi comunisti, questo chiede il popolo della pace. Al governo spetta il compito ineludibile di un ripensamento: nelle forme e nei tempi che potranno e dovranno essere concordati con le forze di pace del nostro Paese. Non si può chiedere, a chi nel corso dei cinque anni passati per otto volte ha espresso nel merito un voto contrario, di capovolgere la sua posizione. Su questo rifletta chi oggi si sbilancia al punto da ipotizzare un rafforzamento del nostro impegno bellico, in termini di uomini e mezzi. In realtà, noi intendiamo opporci alla stessa riconferma della missione in Afghanistan, così come è stata ripetutamente proposta dal governo di Berlusconi. Si tratta della scelta più responsabile, poiché sbarra la strada a nuove disgraziate avventure, a nuovi morti. In tal senso, ci attendiamo dal governo segnali di discontinuità e un chiaro impegno per il ritiro delle truppe italiane anche dall’Afghanistan.