Afghanistan, il “capolavoro” della Cia

«Quella afghana è stata una guerra segreta combattuta e vinta dalla Cia senza dibattiti al Congresso o proteste nelle strade. Non è stata solo la più grande operazione della Cia, ma la più grande guerra segreta della storia, eppure gli americani non ne sanno molto». I dieci anni – 1979/1989 – della sanguinosa guerriglia combattuta sul suolo afghano dagli Usa contro l’Armata rossa rappresentano infatti uno dei “capolavori” dell’Agenzia, interamente combattuti sotto un duplice schermo: quello dei mujaheddin e quello del governo pakistano. I mujaheddin armati dagli Usa e il Pakistan che si presta a fare da copertura.
Uno dei comandamenti fondamentali della Cia impone infatti «di non introdurre mai in un conflitto armi la cui origine possa essere fatta risalire agli Stati Uniti». Così il primo invio dell’Agenzia ai ribelli afghani sparsi sulle montagne – armi leggere e munizioni sufficienti ad equipaggiare un migliaio di uomini – è costituito da armamenti di fabbricazione sovietica che la Cia aveva messo da parte per simili evenienze. Pochi giorni dopo l’invasione russa, «alcuni container provenienti da un deposito segreto di Sant’Antonio giunsero per via aerea a Islamabad, in Pakistan, per essere consegnati ai servizi segreti del presidente Mohammed Zia ul-Haq, i quali avrebbero provveduto a distribuirne il contenuto ai ribelli afghani». Era stato l’allora presidente Carter a strappare a Zia tale accordo: davanti al dilagare dei sovietici, la Cia avrebbe fornito le armi, ma «le spie americane avrebbero operato esclusivamente attraverso gli uomini del dittatore». Un lavoro «coperto» in una guerra «coperta».

Chi furono le spie del più grande e riuscito “lavoro sporco” della Cia? Principalmente furono tre: Charlie Wilson, Gust Avrakotos, Mike Wickers. La loro storia – e la parte che ebbero nella vicenda afghana – è descritta da George Crile, giornalista del Washington Post e della Cnn, produttore del programma Cbs “60 Minutes”, nel suo libro Il nemico del mio nemico (Il Saggiatore, pp. 512, Euro 22): ricognizione puntuale di una storia vera più intricata e appassionante di un romanzo giallo, per la serie: la realtà batte l’immaginazione.

La scena del delitto è l’Afghanistan del dopo Taraki, del fallimento della “rivoluzione d’aprile”, di quell’infausto 27 dicembre 1979, quando la 40ma Armata sovietica attraverso il passo di Khyber varca i confini di quel remoto e primitivo paese del Terzo Mondo. La situazione è così succintamente riassunta nel libro: «L’Afghanistan come l’immagine speculare di ciò che era accaduto agli Stati Uniti in Vietnam. I sovietici erano in Afghanistan, in apparenza, per sostenere il governo indipendente di quel paese. Di fatto il loro governo fantoccio. Gli uomini dell’Armata rossa in teoria dovevano fungere da consiglieri militari e rifornire l’esercito afghano, che all’inizio della guerra contava centomila uomini». Ma la ribellione islamica e le continue diserzioni che riducono l’esercito a trentamila soldati, e soprattutto i timori che i focolai di rivolta si estendano anche alle vicine repubbliche di Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan, non lasciano altra scelta ai sovietici «che combattere in prima persona. Agli Stati Uniti era accaduta la stessa cosa in Vietnam».

Far subire all’Urss il medesimo disastro che gli Usa aveva pagato in Vietnam, era un allettante programma, dopotutto. Anche se, all’inizio, nessuno alla Cia poteva lontanamente supporre che quei deboli, male armati focolai di guerriglia sarebbero stati in grado di tenere testa all’esercito della seconda Superpotenza. Invece, grazie al provvidenziale intervento amerikano, il “miracolo” ci fu. E quando, il 15 febbraio 1989, l’ultimo soldato sovietico lascia l’Afghanistan, i capi della Cia celebrano l’evento come il più grande successo dell’Agenzia e inviano un cablogramma alla base di Islamabad che contiene due sole parole: «Abbiamo vinto». Hanno vinto anche Charlie Wilson, Gust Avrakotos, Mike Wrickers. Bel “lavoro”, vi hanno lasciato la vita 28 mila soldati sovietici.

Quando Wilson abbraccia la causa afghana, è un deputato dalla dubbia fama, molto dedito alle feste, alla dolce vita e alle belle donne. E’ un texano alto e prestante, eletto nel secondo collegio situato nel cuore della Bible Belt, ha quarantasette anni e un giornale locale lo definisce come «il più grande playboy del Congresso». Il suo primo lavoretto “coperto” per la Cia ha inizio nell’estate del 1980. «Wilson sollevò la cornetta e chiamò la Commissione Stanziamenti per parlare con il membro dello staff che si occupava dei “fondi neri” della Cia. L’uomo era Jim Van Wagenen, ex professore universitario ed ex agente dell’Fbi. Il deputato conosceva abbastanza bene gli oscuri meccanismi della sottocommissione e sapeva quando un membro può agire da solo per finanziare un programma. «“Quanto stiamo dando agli afghani? ”, chiese a Van Wagenen. “Cinque milioni”, rispose il funzionario. “Raddoppiali”, disse il texano».

Non è che l’inizio. Un fiume segreto di dollari e di armi prende la via dei mujaheddin. «Secondo me quello che ci univa – dirà il suo socio Gust Avrakostos – era andare a caccia di ragazze e ammazzare comunisti». E’ lui che riesce nell’83 ad ottenere i primi 40 milioni di dollari pro-guerriglia, 17 milioni dei quali destinati all’acquisto di un’arma antiaerea capace di abbattere gli Hind, i micidiali elicotteri da combattimento sovietici. Wilson arrivò in Pakistan «per portare personalmente» ai ribelli afghani la notizia degli arrivi degli Oerlikon, capaci appunto di abbattere gli Hind. Il primo dei capi mujaheddin ad entrare nell’ufficio di Charlie, «l’ingegnere Gulbuddin Hekmatyar, con una lunga barba nera e il turbante, sembrava appena uscito dall’Antico Testamento». Un gran bel tipo, Gulbuddin; era il favorito di Zia e dei servizi segreti pakistani, coi quali aveva iniziato a lavorare fin dai primi anni Settanta, «quando il Pakistan cominciò a sostenere in segreto gli studenti fondamentalisti dell’Università di Kabul, che protestavano contro l’influenza sovietica sul governo afghano». Gulbuddin poi divenne «una figura importante del radicalismo islamico», e, «secondo tutte le testimonianze, «fu lui a istituire la pratica di gettare acido sul volto delle donne afghane che non si vestivano secondo i precetti». Ma non solo. Il partner previlegiato di Charlie, nell’Armata rossa era una leggenda «e veniva considerato il responsabile delle torture più inenarrabili inflitte ai soldati sovietici. Il suo nome veniva sempre ripetuto ai nuovi arrivati, ai quali si consigliava di non andare in giro da soli al di fuori del perimetro della base per non finire nelle mani di quel fanatico depravato, la cui specialità, si diceva, era scuoiare vivi gli infedeli». Ma Wilson ne era affascinato, perchè «aveva sentito dire che ammazzava i sovietici come nessun altro».

Il viso degli agenti della Cia, scrive Crile, «è spesso ingannevolmente mite e Mike Vickers, con gli occhiali e la sua aria tranquilla, lo era in modo particolare». Mike, un altro agente Cia all’opera in Afghanistan negli stessi anni. Proveniva da una famiglia di immigrati, suo padre era stato un eroe di guerra decorato con la stella d’argento e, da adolescente, Mike «sentì di essere nato per realizzare qualcosa di grande». La sua improbabile ambizione di entrare nella Cia nasce per caso, quando il suo insegnante gli fa leggere un reportage sulla guerra segreta della Cia in Laos. Quell’articolo lo affascina, si attiva, supera brillantamente il test d’obbligo ed entra nei “Berretti verdi”. A ventun anni si guadagna il titolo di soldato dell’anno delle forze speciali.

Quando nell’83 sbarca in Afghanistan, è un esperto “del ramo” molto ascoltato. Il problema numero uno, dice lui, è la necessità di fornire ai mujaheddin «la giusta miscela» di armi per uccidere i soldati russi, per mettere fuori combattimento un carro armato, per abbattere un elicottero, per l’assedio a distanza.

Provvidenziale, meticoloso, infaticabile Vickers. Lui indica la combinazione perfetta. Ci vogliono fucili Ak-47, mitragliatrici pesanti da 14,5 millimetri, mortai a lunga gittata. E’ suo il calcolo preciso delle quantità di munizioni necessarie, quantità inimmaginabili. «Prendiamo un fucile d’assalto AK-47 – spiegò Vickers – che in uno scontro a fuoco può sparare duecento colpi. Dieci scontri in un mese consumano grosso modo duemila colpi. Data una stagione di combattimento di tre-quattro mesi l’anno, ogni mujaheddin avrebbe avuto bisogno di circa settemila colpi l’anno. Al costo di quindici centesimi l’uno, si arrivava circa a 1050 dollari l’anno per rifornire di munizioni un solo AK-47 da 165 dollari. Le sole munizioni per gli AK-47 di centomila guerrieri per un anno sarebbero costate cento milioni di dollari» (e di quei fucili d’assalto a quel momento ne erano già stati distribuiti ai ribelli oltre quattrocentomila).

Bravo Berretto verde. Vickers fu chiarissimo e “deteterminante”. «La descrizione delle armi e delle quantità di munizioni necessarie implicava carichi di materiale bellico e costi fino a quel momento impensabili». Implicava aerei e navi da carico, treni e autocarri, cammelli e muli, nuovi magazzini, ispettori e «specialisti per dissimulare l’intervento americano». Con i suoi modi pacati, Vickers introduceva una dimensione completamente nuova. «Non si trattava di dissanguare i sovietici. Il ragazzo, che era un killer ben addestrato, stava spiegando in che modo bisognava preparare il Vietnam dell’Armata rossa».

Non è un film, anche se lo sembra. «Il giorno dopo l’esibizione di Vickers, Gust ritornò nell’ufficio di Wilson e i due parlarono di soldi. Grazie all’aiuto di Charlie, ora il programma afghano poteva contare su cinquecento milioni di dollari». E grazie alla spia dal volto mite di nome Vickers, da quel momento sparivano i rozzi mujaheddin della montagna. Nascevano, i “tecnoguerrieri sacri”.

Il merito va anche al terzo uomo Cia in Afghanistan, Gust Avrakotos.

«Non era facile trovare Avrakotos al sesto piano (la sede della Cia “Divisione Vicino Oriente”, ndr): il motivo di questo deliberato anonimato era scoraggiare l’ingresso di coloro che volevano entrare senza motivo. Tuttavia chiunque poteva entrare e, una volta all’interno, l’ignaro visitatore si trovava di fronte un enorme soldato sovietico che indossava l’uniforme di combattimento degli specialisti della guerra chimica. L’uniforme era vera, recuperata da un soldato dell’Armata rossa ucciso in Afghanistan. C’era un foro sul petto, accanto al simbolo della falce e martello».

Un biglietto da visita tagliato su misura per il caro Gust. «Il mio soprannome era “Dottor Sporco”», dice di se stesso, raccontando la sua storia di agente segreto. Lui non era andato a Harvard, non aveva genitori importanti e non aveva fatto lussuose vacanze all’estero. «Non aveva ereditato neppure lezioni di tennis, denaro o il classico bell’aspetto». Figlio di immigrati greci, era nato in un posto chiamato Aliquippa, Pennsylvania, «e la Cia non andava in posti del genere per reclutare l’elite dei suoi funzionari». Comincia dal basso, lavora in acciaieria, poi come venditore di distributori di sigarette ai bar; e comunque, dotato com’è, riesce a laurearsi con lode in matematica all’Università di Pittsburgh e persino a diventare membro del “Phi Beta Kappa”, il club riservato agli studenti che hanno ottenuto il massimo dei voti.

«“Ti piace giocare nei vicoli bui? ”», domandò Cottam. “ Mi piace”, rispose Avrakotos». Così è raccontato nel libro l’ingaggio di Gust, il 1 agosto 1962, nei ranghi della Cia da parte di Richard Cottam, uno che all’epoca di mestiere faceva il reclutatore di potenziali agenti fra gli studenti universitari. A Camp Peary in Virginia, il campo di addestramento dell’Agenzia, Gust impara a usare armi da fuoco ed esplosivi e tante cose ancora: superare il corso di sopravvivenza, paracadutarsi dagli aerei, pedinare e seminare pedinatori, tracciare schizzi e diagrammi, scrivere annotazioni segrete, lavorare nel ramo intercettazioni telefoniche e macchina della verità, trasmettere messaggi segreti, infiltrare agenti, compromettere o assoldare gli avversari. Un preparatissimo ragazzo in gamba. Il suo primo “lavoretto” all’estero è in Grecia, lì dove l’Agenzia «stava intervenendo in ogni aspetto della vita di quel paese». La Grecia anno 1963 era il luogo dove la Guerra fredda era cominciata, non a caso la dottrina Truman era stata messa in piedi per contrastare la minaccia di inflitrazioni comuniste armate proprio lì (e in Turchia). «Ci chiamavano gli “spettri”», racconta sempre lui. Furono gli “spettri” della Cia a fare da spalla ai colonnelli, a mandare al potere la giunta militare quando, il 21 aprile 1967, il governo democratico viene sospeso. Gust non a caso è il primo della classe. Allorché Papandreu è arrestato, l’ambasciata Usa (che ufficialmente si mostra “pulita”) fa chiedere ai golpisti di consentirgli di lasciare il paese, in quanto il presidente deposto è in possesso di un passaporto americano. Latore del messaggio è l’ineffabile Avrakotos. E lui ai colonnelli dirà (lo racconta lui medesimo): «Questa è la posizione ufficiale. Dovreste lasciarlo andare. Ma ufficiosamente, da mico, il mio consiglio è di sparare a quel figlio di puttana, perché altrimenti tornerà ad ossessionarvi». Per sette anni è il fido collaboratore dei colonnelli, «era di fatto un membro invisibile della giunta militare». Ebbe mani sporche in pasta anche nell’affaire Cipro; e quando lui e i suoi colleghi dei servizi vengono denunciati con nome e cognome in un libro che all’epoca fece sensazione (“Agente della Cia”, di Philiph Agee, un rinnegato della stessa Agenzia), la stampa radicale greca è prodiga di articoli che lo riguardano. Articoli che lo descrivono come «il capo delle forze oscure dell’anomalia», il «macellaio di Cipro», «il fascista della Cia, signore dei colonnelli», «il brutale assassino di donne e bambini ciprioti». Il Communist Morning Daily è ancora più colorito: «Sotto ogni grossa pietra, quando la solleviamo, troviamo vermi, vipere e ragni. Sotto ogni attività losca presente nella nostra terra, spunta il capo dei vermi e delle vipere della Cia, Avrakotos».

Dopo 12 anni di “ottimo” lavoro in Grecia, approda alla Divisione Vicino Oriente dove è in allestimento il «programma afghano». A dirigerlo è un suo vecchio amico della Ivy League, John McGaffin, che lo accoglie a braccia aperte: «Perché non vieni di sopra? Stiamo ammazzando un po’ di russi». Entusiasta. «Gust Avrakotos si immerse nel programma afghano come un’anatra in uno stagno. Niente lo faceva sentire bene come ammazzare i comunisti». E’ lui a procacciare munizioni, mitragliatori, missili (compreso i famosi Stinger) ai mujaheddin. E quanto al Leone del Panshir, il leggendario comandante Massoud che dà scacco matto ai russi, Gust si vanta, ben sapendo di che parla: «Massoud non era spuntato dal nulla. Erano stati lui, Gust Lascaris Avrakotos di Aliquippa e la Cia a consentire ad Ahmad Shah Massoud di realizzare la propria grandezza. E a farne una perfetta impresa da spia, era il fatto che nessuno lo sapeva».

L’Agenzia era alla ricerca di un razzo che avesse un raggio d’azione superiore a dieci chilometri e che non fosse riconducibile agli Usa o alla Nato. Lo trovarono nei magazzini di Mohammed Abu Ghazala, un mercante d’armi egiziano: la katiuscia. «Durante la Seconda guerra mondiale, nel corso dell’assedio di Stalingrado, questo razzo da 122 millimetri era stato decisivo. I proiettili dal sibilo terrificante gelavano la Wermacht con il loro rumore e la loro potenza devastante, e furono immortalate in vecchie canzoni patriottiche sovietiche». Gust comperò tutte le katiusce di Abu Ghazala, a decine di migliaia di dollari ciascuna, «e ben presto i mujaheddin cominciarono a bombardare l’aeroporto nei pressi di Kabul, creando crateri grandi come campi di calcio fino alla periferia della città».

Quel bravo ragazzo di Gust. «Prima che il suo turno scadesse, piazzò ordini per decine di milioni di dollari di armamenti. Le consegne divennero così imponenti che comprò una nave speciale per trasportare i container fino a Karachi». Ed è veramente diventato “qualcuno”. «Possedeva l’autorità di dispensare centinia di milioni di dollari per uccidere i russi. Questo era potere». Grazie a ciò, grazie a lui, quel giorno «le ultime fotografie satellitari mostravano, in immagini incredibilmente nitide, le carcasse fumanti di settantacinque veicoli sovietici»…

E «si avverò quello che secondo Zia era “il miracolo dell’anno”. Il 15 febbraio 1989 Boris Gromov, comandante della 40ma Armata, attraversò davanti alle televisioni di tutto il mondo il ponte dell’Amicizia, ultimo russo a lasciare l’Afghanistan». I sovietici se ne andavano. La Cia aveva vinto.

Dovevano venire i talebani. Bin Laden. L’11 settembre.