Afghanistan e Pakistan, guerra e censura

C’è una guerra in Afghanistan, e ce n’è una – non dichiarata ma non meno reale – nei territori pakistani a ridosso della frontiera afghana. In entrambi i casi il nemico sono i gruppi ribelli Taleban, anzi: è la stessa guerra, transfrontaliera. E in entrambi i casi, la stampa è nel mirino.
In Pakistan, martedì sono ricomparsi due giornalisti scomparsi tre mesi fa mentre filmavano vicino alla base aerea usata dalle forze Usa presso Jacobabad, Pakistan sud-occidentale: sono ricomparsi in tribunale. Fino al giorno prima i familiari non avevano loro notizie. Mukesh Ropeta, reporter, e il cameraman Sanjay Kumar, «sono stati consegnati dai servizi segreti alla polizia», ha riferito ieri un familiare, aggiungendo che portano segni di tortura. Ora sono incriminati per violazione di segreti di stato e ieri un magistrato ha concesso loro la libertà dietro pagamento di 400 dollari ciascuno di cauzione.
Più inquietante ancora il caso di un altro giornalista, Hayatullah Khan, trovato morto venerdì della settimana scorsa in un fosso vicino alla cittadina di Mir Ali, nel Nord Waziristan (una delle «agenzie» tribali, cioè i territori del Pakistan nord-occidentale alla frontiera con l’Afghanistan: semiautonomi, abitati da clan pashtoon che vi amministrano la legge). Il Waziristan è la regione dove un paio d’anni fa l’esercito pakistano ha lanciato un’operazione militare (rinnovata di recente) contro i gruppi guerriglieri Taleban, che là si sono riorganizzati. Khan scriveva da quella zona ed era stato tra i primi a riferire, con testimonianze, come l’esplosione che aveva ucciso un militante di al Qaeda il 1 dicembre a Miranshah (stessa zona) – un egiziano, «pezzo grosso» della rete terrorista a sentire l’esercito pakistano – non era stata provocata da esplosivi di fabbricazione casalinga saltati durante un conflitto (era la versione dell’esercito) ma ha un missile sparato da un drone americano, un aereo telecomandato. Il giornalista cioè aveva sbugiardato la versione ufficiale, creando grande imbarazzo al governo di Islamabad che doveva ammettere che gli Usa «sconfinano» in territorio pakistano nella loro «guerra al terrorismo». Pochi giorni dopo Khan è stato rapito da sconosciuti. Nei giorni precedenti aveva ricevuto minacce.
Lunedì i giornalisti pakistani hanno manifestato in protesta per l’uccisione del loro collega, e chiesto un’indagine indipendente (che il presidente Parvez Musharraf, un generale e capo dell’esercito, ha promesso). Il caso di Hayatullah Khan «è un allarmante promemoria della fragile situazione in cui si trova la stampa “libera” nel Pakistan di Musharraf», scrive il direttore del settimanale pakistano The Friday Times, Najam Sethi. Cita la Commissione pakistana per i Diritti umani (Hrcp), organismo indipendente, per dire che «un terrificane trend di scomparse per mano delle “agenzie della legge e dell’ordine” ha aggiunto una nuova dimensione agli abusi dei diritti umani nel paese». Scrive Sethi: «E’ difficile credere che questa politica di detenzioni illegali e tortura non sia ufficialmente sanzionata al livello più alto dell’apparato della sicurezza nazionale a Islamabad».
Non lavorano meglio i giornalisti afghani. I giornali e le tv di Kabul hanno ricevuto questa settimana una direttiva che stabilisce limiti draconiani al diritto d’informazione. Sotto forma di lettera, riferisce la corrispondente di Le Monde, non firmata ma attribuita ai servizi di intelligence, la direttiva vieta ogni critica alle forze internazionali e Nato, vieta le interviste ai «comandanti terroristi», le critiche alla politica estera del governo e al presidente afghano Hamid Karzai. Suggerisce inoltre di non dare eccessiva copertura alle attività dei ribelli, per «non indebolire il morale della popolazione né attentare agli interessi della nazione». Insomma: la censura sulla guerra, per fingere che non ci sia.