Afghanistan, accordo fatto, anzi no

«Discutere? E di che dobbiamo discutere, l’Italia non può certo uscire dalla Nato o dall’Onu». Il tono sprezzante usato da Massimo D’Alema all’apertura del vertice di maggioranza sulla questione afghana rende merito solo in parte alla conclusione quasi grottesca del lunghissimo confronto di ieri tra il governo e i capigruppo dell’Unione.
Al termine delle quasi cinque ore di discussione complessive si è tornati al punto di partenza, tra battibecchi accesi e perfino qualche incomprensione verbale. E’ soprattutto in virtù di questa commedia degli equivoci che alla fine della discussione la capogruppo dell’Ulivo Anna Finocchiaro può comunicare alle tv che «la maggioranza è compatta» e nello stesso identico istante Manuela Palermi del Pdci ad altre telecamere a pochi metri di distanza quasi gridare che «l’accordo sulle missioni all’estero non esiste e il Pdci non lo voterà».
Sul tappeto si sono srotolate per tutto il giorno le possibili ipotesi di mediazione senza però mai approdare al punto centrale: il collegamento del confronto sulla missione in Afghanistan a un seppur paludato orizzonte temporale di uscita. Per il resto, l’accordo di massima era già stato delineato nei contatti informali dei giorni scorsi: il decreto di finanziamento accoglie il ritiro dall’Iraq ma prevede il mantenimento identico degli impegni presi in Afghanistan. Con l’aggravante dei famigerati caccia Amx che più volte in questi giorni sono comparsi e poi scomparsi in un batter d’occhio, sembrando più un’arma negoziale che strumento da guerra.
Come afferma il capogruppo del Prc in senato Giovanni Russo Spena l’«accordo» prevede una riduzione del contingente militare e il mantenimento delle regole di ingaggio attuali. In altre parole l’Italia resta a Kabul e a Herat e non si sposta nel sud del paese come chiesto dalla Nato. Dovrebbero essere concessi alcuni elicotteri da trasporto e, pare, due «predator» senza pilota da ricognizione. I militari, una volta deciso che si rimane, pretendono anche giustamente i mezzi di copertura. In avvio il capogruppo dell’Ulivo alla camera, Dario Franceschini, non usa giri di parole di fronte alle sinistre: «Voi avete ottenuto il ritiro dall’Iraq, noi otteniamo l’impegno multilaterale in Afghanistan».
La discontinuità pretesa a gran voce da Prc, Verdi e Pdci (che hanno sempre votato contro la missione a Kabul) finisce così nella seconda casella del tribolato percorso, la mozione parlamentare da mettere a punto la settimana prossima. Si è discusso per ore, nel pomeriggio, di un «osservatorio permanente» aperto alle ong e ai parlamentari che verificasse lo svolgimento della missione e facesse da logica premessa all’eventuale exit strategy dell’Italia dal pantano afghano. Exit strategy che, come tutti hanno riconosciuto, non può essere unilaterale come in Iraq ma negoziata a livello internazionale.
Il governo, non senza dubbi, sarebbe stato d’accordo con l’osservatorio (lo stesso D’Alema aveva dato lunedì una sorta di via libera a Rifondazione) ma senza voler cedere su scadenze temporali e mandato politico del monitoraggio. L’atmosfera si accende, il confronto con Verdi e Prc si fa duro. Rovente addirittura quando il ministro della Difesa Arturo Parisi, tirando le conclusioni, afferma che il comitato a suo giudizio non potrà far altro che verificare «il miglioramento della situazione in Afghanistan».
Tra delusioni ed equivoci il passo è breve. E parlare di vertice fallito come di «alta mediazione» è in entrambi i casi eccessivo. Non a caso D’Alema e Parisi non rilasciano dichiarazioni ai giornalisti ed escono da un’uscita secondaria.
A giudicare dalle dichiarazioni finali a impuntarsi è stato soprattutto il Pdci, che con Manuela Palermi giudica «inutile» l’osservatorio (ci sono già le commissioni parlamentari che possono audire i rappresentanti delle ong e i militari) e «inaccettabile» l’intesa raggiunta. Il vicepremier però è sicuro da tempo che la fiducia può e deve essere evitata, affinché ogni partito si prenda le sue responsabilità, Pdci incluso. Non a caso quando nel vertice Palermi dice che non è d’accordo la risposta di D’Alema è gelida: «Volete forse cambiare la maggioranza?».
Il governo si appresta così a varare venerdì un decreto «a perdere» e un ddl complessivo che delinei il quadro giuridico delle missioni all’estero (mandato internazionale, regole di ingaggio, etc.). Un modo per dribblare il rischio fiducia e portare la discussione nel «pantano» parlamentare.
Pantano in cui la fragorosa dichiarazione dell’Udc non fa chiarezza. Il partito di Casini annuncia ufficialmente che voterà a favore delle missioni all’estero. Ma se il decreto finisse davvero su un binario morto ai centristi in uscita dalla Cdl non resterebbe che impegnarsi sul «ddl quadro» varato dal governo. Un atto che prefigura più un vero cambio di maggioranza che una limitata intesa «bipartisan».