Affare Iraq, costi e profitti

Gli Usa pagano da soli la guerra, ma partono appalti «multinazionali» (non solo Halliburton)

«Il presidente Bush si sta confrontando con i costi della guerra in Iraq, sia in vite che in dollari», scrive The New York Times. Non si sa che cosa lo preoccupi di più: le vite americane perse in questa guerra (altrettanti colpi alla sua immagine politica), o i miliardi di dollari più del previsto che essa verrà a costare. Il presidente sta chiedendo al Congresso 75 miliardi di dollari, ma è appena un anticipo. Solo per inviare le forze nel Golfo – hanno specificato funzionari dell’amministrazione – sono stati spesi 30 miliardi di dollari, più 5 miliardi al mese per tenervele. Questi «fondi aggiuntivi» si sommano ai 399 miliardi del budget del Pentagono (di cui 17 per l’arsenale nucleare), ai 40 per i militari a riposo, ai 36 per il dipartimento della sicurezza della patria, agli almeno 35 per i servizi segreti, portando la spesa militare e paramilitare annua a circa 585 miliardi di dollari: oltre un quarto dell’intero bilancio federale. La guerra è però più lunga del previsto: se durerà un mese, stima l’organizzazione Taxpayers for Common Sense, si spenderanno nel 2003 oltre 110 miliardi di dollari. Molto più costosa sarà anche l’occupazione del paese, in quanto gli Usa, vista l’attuale resistenza irachena, vi dovranno mantenere più forze di quanto prevedessero. Inoltre, mentre nel 1991 gli alleati si addossarono circa l’89% del costo della guerra (80 miliardi al valore attuale del dollaro), è quasi impossibile che l’attuale «coalizione» sia in grado di fare altrettanto. Tutto questo, mentre il congresso prevede per il bilancio federale 2004 un deficit di 320 miliardi di dollari, che saliranno ad almeno 400 con il costo della guerra: un record storico che eclissa quello di 290 miliardi del 1992. L’amministrazione ha deciso, con un atto che non ha precedenti dopo la seconda guerra mondiale, di confiscare proprietà irachene negli Usa per 1,5 miliardi di dollari, ma è ben poca cosa: solo a Israele vengono dati, nel quadro del «massiccio budget per la guerra», 10 miliardi di dollari.

A tutto questo si aggiunge il costo dei contratti, per un valore di almeno 100 miliardi di dollari, che diverse agenzie governative, nel momento stesso in cui le prime bombe cadevano su Baghdad, hanno cominciato a stipulare per «la ricostruzione dell’Iraq del dopoguerra» (The Washington Post, 21 marzo). Da essi sono escluse le società non-statunitensi, poiché solo il personale di quelle statunitensi è autorizzato da Washington a «prendere visione dei documenti classificati» relativi ai lavori di ricostruzione. I primi sette contratti, stipulati dall’Agenzia per lo sviluppo internazionale (Usaid), riguardano «la riparazione di infrastrutture, tra cui strade e ponti, e la gestione di porti e aeroporti iracheni». Ad accaparrarseli è «un piccolo gruppo di gigantesche multinazionali statunitensi, alcune delle quali strettamente legate all’amministrazione Bush: tra esse figura una affiliata della Halliburton, la società già diretta dal vicepresidente Cheney», il quale continua a ricevere dalla società un «compenso differito» (una sorta di pensione) di un milione di dollari l’anno, che si aggiunge alla «liquidazione» di oltre 20 milioni di dollari in azioni che ha avuto quando ha lasciato l’incarico. Altre società beneficiarie dei contratti per la «ricostruzione dell’Iraq» sono il Bechtel Group, nel cui consiglio di amministrazione siede l’ex-segretario di stato George Shultz, e la Fluor, che lo scorso aprile ha assunto Kenneth Oscar, già vicesegretario del settore dell’esercito addetto all’acquisto di armamenti (35 miliardi di dollari annui), e ha nel suo consiglio di amministrazione l’ammiraglio a riposo (ma sempre attivo) Bobby Inman, già direttore dell’Agenzia della sicurezza nazionale e vicedirettore della Cia.

L’amministrazione Bush sta dunque facendo, con il denaro pubblico, un enorme investimento sull’Iraq. E’ evidente quindi che voglia recuperarlo. Per questo respinge seccamente ogni richiesta che sia l’Onu ad amministrare il paese nel dopoguerra, quando, secondo i piani di Washington, saranno riportati a pieno regime i pozzi petroliferi e ne saranno attivati altri per sfruttare quelle che sono le maggiori riserve petrolifere del mondo, quando si costruiranno sul territorio iracheno le basi destinate a rafforzare la presenza militare statunitense nell’area strategica del Golfo. Questo, in sintesi, è lo scopo della guerra. Scopo che l’amministrazione Bush cerca di nascondere in vari modi. Tra questi, l’ordine impartito alle unità corazzate, prima di iniziare l’invasione dell’Iraq, di «non esporre sui carri armati le bandiere dei reggimenti e neppure quella americana» (The New York Times, 20 marzo), perché «la bandiera darebbe ai cittadini iracheni la falsa idea che siamo un esercito di conquista, che vuole la terra e la ricchezza irachena per gli Stati uniti, e non una forza di liberazione».