Bush Junior non ha dubbi: “L’aereo statunitense – afferma nella dichiarazione ufficiale di ieri – operava nello spazio aereo internazionale in pieno accordo con tutte le leggi e procedure e non ha fatto niente per causare l’incidente”. Gli Stati uniti solleveranno quindi, nell’incontro del 18 aprile, la grave questione di come “la Cina ha iniziato di recente a sfidare gli aerei statunitensi che operano legalmente nello spazio aereo internazionale: i voli di ricognizione fanno parte di una onnicomprensiva strategia di sicurezza nazionale che contribuisce a mantenere la pace e la stabilità nel nostro mondo”.
E’ quindi assodato: mandare aerei come l’EP-3E nei pressi di un paese per captare, con sofisticate apparecchiature elettroniche, le comunicazioni che avvengono al suo interno, è del tutto legale, e si pone fuori della legge chi ostacola tale attività. Resta da vedere quale sarebbe la reazione Usa se aerei spia cinesi volassero lungo le coste della California. Non solo: secondo il presidente Bush, questi voli di “ricognizione” (ossia di spionaggio elettronico) servono a mantenere la pace “nel nostro mondo”, espressione con cui sicuramente egli indica non il mondo in cui tutti noi viviamo ma il mondo che gli Stati uniti considerano di loro proprietà.
Chi avesse dubbi in proposito può leggere su The Washington Quarterly (Winter 2001) l’articolo scritto dall’ammiraglio Dennis C. Blair, comandante in capo dello U.S. Pacific Command, sotto cui operano gli EP-3E dislocati in quest’area. “Gli Stati uniti – spiega l’ammiraglio – hanno importanti interessi in tutti gli angoli dell’Asia”. “La regione Asia-Pacifico – si precisa nella presentazione ufficiale dello U.S. Pacific Command – con le sue economie, popoli e vie marittime costituisce un’area di vitale interesse nazionale per gli Stati uniti”. Per questo essi mantengono in quest’area, nella quale si svolge il 35% del commercio statunitense, “un Comando congiunto che dirige e coordina l’impiego delle forze statunitensi in tempo di pace, di crisi o di guerra per promuovere gli interessi statunitensi” (United States Pacific Command Facts, 2001).
Il Comando Usa del Pacifico – sempre dalla presentazione ufficiale – abbraccia un’area di 169 milioni di km quadrati, corrispondente a oltre la metà della superficie terrestre, che comprende 43 paesi e 30 territori, di cui 10 statunitensi. In quest’area, dove vive oltre il 60% della popolazione mondiale, gli Stati uniti hanno stipulato cinque dei loro sette “trattati di mutua difesa”: con le Filippine, l’Australia e Nuova Zelanda, la Corea del sud, il Giappone e, nel quadro della “Difesa collettiva dell’Asia sud-orientale”, con Francia, Australia, Nuova Zelanda, Thailandia e Filippine.
I pericoli presenti nella regione Asia-Pacifico derivano, per il comandante in capo dello U.S. Pacific Command, dal fatto che “prevale in quest’area una concezione delle relazioni internazionali in termini di equilibrio di potenza: i dirigenti di Cina, India, Russia e altri stati parlano di un mondo multipolare in cui i maggiori stati sono rivali, manovrando in continuazione per creare equilibri”. Fortunatamente, per correggere questo modo arretrato di concepire le relazioni internazionali in termini di potenza (che l’ammiraglio Blair definisce tipico del “mondo di Bismarck e dell’Europa del XIX secolo”), c’è in quest’area lo U.S. Pacific Command, con 300mila militari, 190 navi da guerra (6 portaerei), 1.430 aerei della marina e del corpo dei marines e 400 dell’aeronautica.
La politica che viene seguita nella regione Asia-Pacifico è quella elaborata dal Pentagono, nel dopo guerra fredda, con la denominazione di “strategia regionale della difesa”: “Noi operiamo per impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione le cui risorse sarebbero sufficienti, se controllate direttamente, a generare una potenza globale. Queste regioni comprendono l’Europa occidentale, l’Asia orientale, il territorio dell’ex Unione sovietica, e l’Asia sud-occidentale” (Defense Planning Guidance for the Fiscal Years 1994-1999).
A tal fine le forze armate Usa sono articolate in nove comandi unificati, che coprono l’intero globo terracqueo e lo spazio: cinque con responsabilità regionale (come il Pacific Command) e quattro con responsabilità mondiale. Tra questi ultimi vi è lo Space Command, “responsabile del controllo dello spazio”, il quale “assicura agli Stati uniti l’accesso allo spazio e la possibilità di operarvi, e nega ai nemici questa stessa libertà” (U.S. Department of Defense, How We Deploy Forces, 2001).
A Washington sanno bene però che trattare con un paese come la Cina non è, in termini di rapporti di forza, la stessa cosa dell’Iraq o della Jugoslavia. Da qui il “dosaggio” nella dichiarazione di Bush: mentre da un lato riconosce che esistono tra i due paesi “fondamentali disaccordi” su “questioni basilari come quella dei diritti umani”, dall’altro afferma che esistono anche “comuni interessi”. La cosa più importante è che i due paesi “sono d’accordo sull’importanza del commercio”.
L’amministrazione Bush, ha scritto The New York Times, è stata messa in guardia da importanti uomini d’affari statunitensi perché le sanzioni economiche contro la Cina, chieste dai conservatori, avrebbero “effetti boomerang sull’economia americana”. Perdipiù, un ulteriore rinvio nell’ammissione della Cina al Wto provocherebbe “un ritardo nell’apertura del mercato cinese che sarebbe ben accolto da molti funzionari cinesi”. Pressione politica e militare, dunque, ma esercitata con giudizio per non suscitare irrigidimenti che ostacolerebbero la penetrazione economica statunitense in Cina.
Basti pensare agli oltre 10 miliardi di dollari annui che le principali società dell’industria statunitense delle confezioni realizzano, fabbricando in Cina oltre un miliardo di capi di abbigliamento. Nelle fabbriche che li producono le giovani operaie sono costrette a lavorare, agli ordini di rampanti executive cinesi, da 10 a 16 ore al giorno, per salari inferiori al costo della vita, senza alcuna protezione né garanzia. Queste, però, non sono violazioni dei diritti umani. Sono, come si afferma nella dichiarazione del presidente Bush, “relazioni produttive che contribuiranno a un mondo più sicuro, più prospero e più pacifico”.