Adriano Sofri e la civiltà giuridica

L’Italia si indigna di regola con i detenuti. Specie politici. Chi è dentro, dentro deve restare. Chi è venuto fuori deve tacere.
Lo scenario si ripete. Clemente Mastella ha inoltrato al Quirinale la pratica di Bompressi, che, malato, aveva chiesto la grazia da tempo. Si sono levate le strida: perché a lui sì e agli altri niente? Degli «altri» ci si ricorda soltanto quando si lumeggia la grazia per qualcuno: allora si evoca un’amnistia, poi si ripiega su un indulto, poi siccome occorre, console Luciano Violante, una maggioranza di due terzi, non se ne fa niente. Neanche Giovanni Paolo II è riuscito a spuntarla pur venendo a chiederlo di persona alle nostre pie Camere.
Di più, stavolta nel bersaglio c’è Adriano Sofri. Qualche mese fa Sofri è stato per morire di galera, un’emorragia l’ha tenuto fra vita e morte in camera di rianimazione. Non chiede la grazia perché si dichiara innocente. Come potrebbe? Ma questo non impedisce al capo dello stato di dargliela, come ha nuovamente spiegato, domenica 4 giugno, Guido Viale, facendo la storia, fin surrealista, degli ingranaggi procedurali che hanno caratterizzato questa vicenda – un caso Dreyfus italiano. E in verità non conosco una sola persona che avendo letto i processi non sia stata presa almeno dal dubbio che Sofri sia innocente: nessuna prova a carico riscontrabile, molte distrutte, nessun teste salvo il suo accusatore. Trovandomi fra coloro che hanno letto quelle carte, ero e rimango persuasa che Adriano Sofri sia oggetto d’una condanna non so quanto consapevolmente ma fermamente voluta da Leonardo Marino, dai carabinieri e dall’ex Pci, prima di Sarzana poi nazionale. E capisco che non chieda la grazia. Meno capisco perché Carlo Azeglio Ciampi non gliela abbia data motu proprio, neanche quando, contro il ministro Castelli, la Corte costituzionale ha sancito che era sua facoltà. Mi auguro che Giorgio Napolitano decida senza più attendere. Non vorrei che la nostra modesta coscienza nazionale del diritto speri in un’altra emorragia. Ma giacché si sono tornati ad agitare amnistia o indulto, suggerirei al governo Prodi di metterci le mani con decisione. Di studi e documentazione e scandali sulle carceri ce ne sono fin troppi. Prodi decida una delle due misure e la metta ai voti prima dell’estate, che per i detenuti è la stagione più terribile, e se la Casa delle libertà si oppone, dia subito corso al mutamento della procedura. Ci vorrà più tempo, ma si uscirà da questo pantano.
Ma ci sono altri segnali di civiltà giuridica da dare. Anche su Sergio d’Elia è successo il finimondo. D’Elia non ha da essere messo fuori, lo è già. Dopo dodici anni dei trenta che gli aveva affibbiato un giudice per un assalto alle Murate cui non aveva partecipato ma del quale, ha opinato il giudice, sapeva – curiosa imputazione, da tempi di Bush. Poi la giustizia gli ha restituito i diritti civili. E’ rispettato dovunque (è sua «Nessuno tocchi Caino») ed è diventato deputato della Rosa nel pugno. Tumulto a destra: ma come, è stato coinvolto negli anni di piombo (da noi sono considerati peggio del Ruanda) e varca il sacro suolo di Montecitorio? Da parte sua la signora Dionisi, che ha perduto il marito in quell’assalto cui D’Elia non ha partecipato, protesta. La deputata Olga D’Antona, vedova del giuslavorista ucciso dalle nuove Br, si duole che troppi reduci di quella stagione parlino, scrivano e tengano cattedra. Non se la prende con D’Elia, che è persona discreta, «cammina in punta di piedi». Ma come si permettono altri di scrivere e parlare? Capire il come e il perché di quella deriva sanguinosa non interessa agli italiani perbene. E se il danno arrecato è irreversibile, qualche tormento irreversibile dovrebbe restare. La legge dice che la pena estingue il reato, ma no: anche chi ha scontato la pena deve chiudere il becco per sempre.
Voltaire non abita più qui, lui che scriveva: «Non mi va affatto quel che dici, ma darò la vita perché tu possa dirlo». Neppure Gesù Cristo ci frequenta molto. A ogni condanna i media sollecitano la gioia dei vendicati: «E’ soddisfatto?» e a ogni assoluzione ne attivano il furore: dice la mamma: «Vorrei che morissero a fuoco lento». Il papà «Che soffrano quanto me». All’anima delle radici cristiane.