Addio Pontecorvo

Avrebbe compiuto 87 anni il 19 novembre prossimo Gillo Pontecorvo, il regista morto nella notte, impegnato politicamente a sinistra, autore di alcuni film di forte drammaticità che hanno lasciato una traccia importante non solo nel cinema italiano degli Anni Sessanta, ma anche nel cinema mondiale, a partire da quella «Battaglia di Algeri», girata nel 1966, che gli valse il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia e sollevò allora non poche polemiche per l’atteggiamento favorevole che esso aveva assunto nei confronti della lotta degli algerini contro i francesi per la conquista dell’indipendenza.
Un film corale, con uno stile asciutto da documentario d’attualità, senza fronzoli formalistici ma con grande senso del ritmo e della tensione drammatica. Un film che ancor oggi ci può dare non poche informazioni su quel periodo e su quella lotta, proprio perchè Pontecorvo ne seppe cogliere dall’interno le motivazioni storiche e ideali.
D’altronde lui, quinto di otto figli di un ricco imprenditore tessile ebreo, neto a Pisa nel 1919, aveva avuto una formazione politica e culturale laica e antifascista, prima in Italia, poi in Francia, dove si era recato nel 1939 a causa delle leggi razziali, e soprattutto durante la Resistenza e nel Partito comunista.
Sicché, quando lasciò il giornalismo, che aveva praticato alcuni anni, per il cinema, dirigendo nel 1956, dopo qualche cortometraggio, l’episodio «Giovanna» di un film collettivo curato da Joris Ivens, si parlò di lui come di un regista attento ai problemi sociali, ai risvolti politici della vita quotidiana, soprattutto d’un autore rigoroso, per il quale la politica faceva tutt’uno con lo stile.
Ciò si vide anche nel suo primo lungometraggio, «La grande strada azzurra» (1957) con Yves Montand e Alida Valli, una storia di pescatori che si inseriva nel nuovo filone del cinema politico italiano con una sua originalità. E se il successivo «Kapò» (1960) sollevò non poche critiche per una certa facile drammatizzazione dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, non v’è dubbio che la questione della Shoah da lui sollevata prima di altri e soprattutto il tentativo stilistico di dare al dramma la dimensione del documentario (come farà con ben altro risultato nella «Battaglia di Algeri») costituiscono i pregi maggiori del film. Che si colloca, insieme a «Queimada» (1969), con Marlon Brando, fortemente anticolonialista, e a «Ogro» (1979), sull’assassinio del primo ministro spagnolo Carrero Blanco, delfino di Franco, sul versante di quel cinema impegnato ma non fazioso, popolare ma non corrivo, sempre controllato da uno stile rigoroso, che costituisce l’apporto più originale che Pontecorvo ha dato alla cinematografia italiana.
Con il rimpianto che per lunghi anni, dal 1979 a oggi, egli non abbia più avuto l’occasione di proseguire il suo discorso illuminato e personale.