Ad Harbin la nuova Cina divora la vecchia Russia

Sulle banconote da cento yuan della Repubblica Popolare Cinese campeggia Mao Tsetung. Otto di questi biglietti, all’incirca, da tempo immemorabile (per i criteri della new economy) fanno un dollaro americano. E, nonostante tutti gli sforzi di Bush perché lo yuan venga rivalutato almeno del 25%, l’impressione è che continueranno a fare un dollaro ancora a lungo. Visto da Harbin, quassù, al nord della Manciuria, ai confini con tutto l’Estremo Oriente ex sovietico e ora russo, il «problema Cina» appare ancora più immenso e ingovernabile di quanto non potrebbe sembrare da Bruxelles o da New York.
Una metropoli, Harbin, a noi sconosciuta, ma solo per colpa nostra, di otto, forse dieci milioni di abitanti – le cifre che ti vengono date variano molto – a 500 chilometri dalla frontiera con la Russia, cioè con le più grandi risorse minerarie del pianeta; che si affaccia sul Mar del Giappone; che confina con la Corea del Noni e la Mongolia esterna, attorno a cui gravita una popolazione più grande di quella dell’Italia. Un immenso, sterminato cantiere che sforna grattacieli di banche e istituzioni, imprese multinazionali, di civile abitazione, a ritmi che nessun
Paese europeo – nessun Paese del mondo – ha mai visto in tutta la storia del capitalismo. Non è difficile prevedere che, tra non molto, questa sarà un’area strategica di importanza planetaria. La sera, girando lungo le moderne circonvallazioni sopraelevate, in mezzo a un traffico convulso ma pazzescamente veloce, la città – nuova di zecca come un giocattolo tecnologico – s’illumina come una fiera di paese. Una fiera inimmaginabile, in cui ogni edificio ha il suo arredo luminoso individuale, distinto da quelli vicini. Ciascuno il suo stile, i suoi colori. Il tutto a sommarsi con lo sfarzo della pubblicità luminosa tipo Las Vegas che inonda le vie principali ai piani più bassi.
Se la Cina è a corto di energia, ad Harbin non si vede. Anche loro a danzare sul Titanic, come se il petrolio non fosse a 60 dollari il barile. E non è una festa o una ricorrenza, meno che mai politica. Semplicemente la municipalità ha chiesto a tutti i proprietari d’immobili – pubblici e privati – di contribuire alla bellezza comune.
Tutti i giorni dell’anno, quelli dell’estate afosa e tremenda, con i suoi 40 gradi, e quelli dell’inverno gelato a meno trenta.
La città è giovane, per il metro europeo. A metà dell’ 800 – come si può vedere dai dagherrotipi esposti nel piccolo museo in cui è stata trasformata l’ex cattedrale ortodossa di Santa Sofia, quasi seppellita dalla magnificenza consumistica del mall intitolato al dio Manhattan – Harbin era un agglomerato di poche decine di baracche di legno sulle rive del fiume immenso che ora attraversa la città e che solo negli ultimi anni è stato domato da argini di granito nuovi di zecca. Nuovi come tutto il resto qui. Santa Sofia è così poco santa che non si trova un solo pope disposto a officiarvi. O forse si troverebbe ma non interessa a nessuno. Un altoparlante sull’arcata d’ingresso in mattoni rossi e scrostati inonda la piazza di poprock cinese. Niente inglese.
Qui i russi sono ancora presenti. Per storia, per tradizione. Sono stati padroni, occupanti, e si sono contesi queste terre con i giapponesi in guerre sanguinose. Qui, ancora nel 1936, si pubblicava un giornale in lingua russa per una comunità numerosa di emigrati e uomini d’affari. Prima il capitalismo russo nascente e imperiale, poi il socialismo russo nascente e anch’esso imperiale, scendevano al Sud a portare la modernità. C’è una strada ad Harbin, che si chiama ancora adesso «la via dell’oro». L’hanno trasformata in isola pedonale, costeggiata di case costruite secondo lo stile russo di fine ‘800 che si può vedere ancora nel centro di Mosca, o di San Pietroburgo, o di Vladivostok. Via dell’oro perché è lastricata di sanpietrini rettangolari di granito, un lavoro perfetto anche per l’epoca attuale, costituito da qualche milione di pietre: portarne una fino ad Harbin costava, allora, un rublo. E quelli erano rubli che valevano.
Ora le parti sono invertite. La Fiera di Harbin, quest’anno è gigantesca come tutto da queste parti – era dedicata alla Russia. Intere aree occupate da imprese russe, che arrivano qui, in genere per vendere materie prime. C’è di tutto: dall’oro, ai diamanti, al petrolio, al legname della sterminata taigà. L’unica cosa che scarseggia sono gli uomini. Quello che si vende è russo ma anche i venditori sono ormai cinesi. Da una parte della frontiera restano, sì e no, sette milioni di persone, in calo, perché vivere in quelle condizioni climatiche, senza servizi sociali, senza capitali, è un sacrificio che solo pochi vogliono affrontare. Ai tempi sovietici, per popolare l’Estremo Oriente russo e la Siberia, il sistema pianificato aveva inventato il sistema del doppio incentivo: più andavi a Nord e a Est, più il salario cresceva. Un operaio che accettava di muoversi verso la Ciukotka poteva trovarsi con un salario dieci, venti volte, superiore a quello del suo collega di Mosca. A cui si aggiungevano privilegi allora molto appetibili: una Zhigulì a prezzo di fabbrica senza aspettare il turno di dieci anni; un appartamento fuori quota nella capitale della repubblica di prove¬nienza, fosse l’Ucraina, la Bielorussia, l’Armenia o la Georgia. Ma il capitalismo non colonizza con questi criteri. E, finito il socialismo, ha eliminato i coefficienti. Ciascuno fa a modo proprio. E il risultato è che i russi, la grande maggioranza, se ne tornano – quelli che possono – verso i climi più temperati. Così si sta creando, da dieci anni a questa parte, una situazione inedita. Da una parte della frontiera, quella più ricca di beni da estrarre dal suolo e sottosuolo – qualcosa grande come una volta e mezza l’intera Europa, ci sono sette milioni di individui, in gran parte anziani, senza capitali da investire.
Mentre dall’altra parte, quella meno ricca di beni, ci sono settanta milioni di persone, cinesi, ormai dotate di capitali a volontà, impegnati nella corsa all’oro, dotati di un’energia creatrice e distruttrice (secondo la ricetta neo liberista più limpida) che non ha pari nell’ epoca contemporanea. Il risultato è già clamorosamente visibile, anche se sono pochi quelli che hanno già capito quali saranno gli effetti di lungo periodo: milioni di cinesi stanno pacificamente invadendo le regioni russe confinanti dello Heilongjang. Città come Khabarovsk, Blagoveshensk, Komsomolsk sull’Amur, Nikolaevsk, un tempo totalmente russe – la frontiera con la Cina era non solo chiusa lo chiusa ma contestata da ambo le parti, guardata. a vista, oggetto di tensione permanente – sono oggi per metà cinesi. Un’invasione pacifica, naturale, inesorabile, inevitabile, che con l’andare del tempo trasformerà la fisionomia etnico-linguistica, cioè nazionale, di queste regioni.
Che farà il successore di Putin? Che farà l’America scoprendo che la Cina avrà a portata di mano il bengodi di tutta la tavola di Mendeleev? Qui ad Harbin la politica non si vede mai, come poco o niente si vedono i poliziotti. Che comunque sono ormai elegantemente vestiti, con la fondina alla cintura ma vuota di ogni pistola. Tutto ruota, in questo formicaio gigantesco, apparentemente senza frizioni. Progettano una città che sarà quattro volte più grande di questa attuale, piantano milioni di alberi. Hanno costruito il nuovo palazzo del governo locale, come una piramide in vetrocemento a cinque chilometri dal centro, mentre il resto della città cresce ad altri dieci chilometri di distanza.
Ma comprano terreni al di là della frontiera del Nord. Il legname oltre l’Ussuri e l’Amur sono loro a tagliarlo e a commercializzarlo. Uno degli stand della fiera di Harbin era della Paleks, Associazione dei produttori ed esportatori di legname di tutta l’area di frontiera. Un gruppo di 22 imprese dai nomi russi, piene di capitali cinesi, il cui scopo è apparentemente quello di mettere ordine nella selvaggia deforestazione in corso a Nord dell’Amur. Un altro stand era dedicato a una «zona libera» a cavallo della frontiera. Cercansi capitali per costruirla: hotel di lusso dalla parte russa, case da gioco e grandi magazzini dalla parte cinese. Mostro il Grande Condottiero sulla banconota da 100 yuan alla signora Nu Fu Yan, gentilissima accompagnatrice fornitami dal Comitato per l’agricoltura della municipalità di Harbin. Che ne pensa, signora, di lui? «È il padre della nazione» risponde. E di Deng Xiao l’ing, che ne pensa? «Lui ci ha insegnato cosa sono i soldi e ci ha detto che possiamo diventare ricchi».