Accordo inganNATO

Desta quantomeno sconcerto il “candore” con cui il comandante supremo della Nato, il generale statunitense John Craddock, ha rivelato che l’Organizzazione Atlantica è solita cercare di rispettare il meno possibile le condizioni restrittive poste dai governi ai loro contingenti, in particolare in Afghanistan. Si tratta di una grave ingerenza nella sovranità dei governi e degli Stati appartenenti alla Nato.

L’Italia ha di recente inviato in Afghanistan un C130 e due Predator, ribadendo per bocca di numerosi esponenti governativi, che trattasi di mezzi esclusivamente difensivi. La Nato non può dunque pretendere di stravolgerne l’utilizzo. Siamo certi che i comandanti italiani in loco si atterranno scrupolosamente ai limiti fissati dal Governo italiano i quali, coerentemente con gli indirizzi parlamentari, non prevedono la partecipazione ad azioni di guerra. Comunque, proprio su questo tema, i Comunisti Italiani hanno rivolto una interrogazione al Ministro della Difesa, per sapere se corrisponda al vero che, come ha scritto il settimanale l’Espresso, gli equipaggi dei tre elicotteri ‘Chinook’ dell’Esercito vengano impiegati per il trasporto di plotoni di marines americani durante azioni belliche e che gli incursori del Comsubin e i parà del Col Moschin beneficino di una “grande libertà d’azione”, risultando così coinvolti in azioni di combattimento.

Le dichiarazioni di Craddock non sono fini a se stesse, ma sono da inquadrare nell’accelerazione che l’amministrazione Bush vuole imporre alla creazione delle condizioni per un ulteriore passaggio della “guerra permanente”. Il secondo tempo di questa drammatica partita, si incentrerà sulla ripresa dell’offensiva americana in Iraq ed in Afghanistan, e, temo, anche sull’apertura di un terzo fronte in Iran. Gli USA stanno cercando di coinvolgere gli altri paesi, specialmente quelli europei, nell’isolamento dell’Iran sulla questione del nucleare, sebbene nell’area molti vicini dell’Iran, tra cui Israele, abbiano già l’arma atomica con il beneplacito americano e persino l’Arabia Saudita, paese che come l’Iran è grande produttore di greggio e quindi non necessiterebbe, secondo il ragionamento degli USA, dello sviluppo della produzione di energia nucleare, abbia accolto l’offerta russa di cooperazione in tal senso.
Inoltre, come sostengono gli stessi servizi segreti Usa e britannici, l’Iran è lontano diversi anni dalla possibilità di costruire una bomba e ci sarebbe tempo a sufficienza per mediazioni diplomatiche. Invece, sembra in atto, anche con gli attentati in Iran ed in Libano, paese la cui situazione interna è strettamente legata alla questione iraniana, una strategia tesa ad aumentare la tensione nell’area. Nel frattempo gli USA hanno spostato una seconda portaerei nel Golfo Persico e sono alla ricerca di una nuova “pistola fumante”, tentando di provare il coinvolgimento iraniano nella fornitura di armi alla guerriglia sciita irachena.

Ma che la situazione corra il pericolo di degenerare in conflitto aperto è dimostrato dalle dichiarazioni rilasciate nelle ultime settimane da importanti fonti internazionali. Mentre Eliezer, ministro israeliano delle infrastrutture, ha dichiarato che Israele entrerà in un nuovo conflitto prima della fine dell’anno, il premier francese de Villepin si è dichiarato contrario ad un attacco contro l’Iran ed a favore di un ritiro immediato delle truppe Usa dall’Iraq. Anche Putin ha attaccato in modo insolitamente netto la ripresa dell’unilateralismo da parte degli USA e la loro tendenza militare aggressiva. Particolarmente significativa è stata pure la presa di posizione contro un eventuale attacco all’Iran di The Economist, che sottolinea come invece all’epoca avesse appoggiato l’invasione dell’Iraq. Anche negli USA si stanno alzando molte voci, non solo tra i democratici, tra cui Hilary Clinton, contro l’invio di nuovi ulteriori 21.500 uomini in Iraq e, persino tra i militari, contro un eventuale attacco all’Iran. L’amministrazione Bush sembra invece determinata ad aprire un secondo tempo nella sua “guerra contro il terrorismo”, incurante degli effetti destabilizzanti e dell’ondata terroristica già provocati dall’invasione dell’Iraq. Invece di attestarsi sulla difensiva, a causa dello stallo registrato in Iraq, Bush rischia grosso, riprendendo l’offensiva ed allargandola a ben tre fronti.

Le forze armate USA, abbandonato il modello “leggero” dell’ex ministro della difesa Rumsfeld, fondato su ridotte truppe di terra e sulla superiorità tecnologica soprattutto aerospaziale, si stanno preparando ad essere impiegate su scala più ampia, aumentando i propri effettivi di 92mila uomini in cinque anni. Per poter riempire i ranghi delle logorate ed insufficienti forze Usa, il Pentagono è stato costretto ad abbassare gli standard d’arruolamento, alzando il limite d’età a quaranta anni, accettando candidati con precedenti penali e con un livello intellettuale decisamente inferiore alla norma. Inoltre, si prevede la creazione di un corpo della riserva civile ed addirittura una “legione straniera” pari al 20% delle forze armate nazionali. La crisi dell’imperialismo Usa trova un indice proprio nella difficoltà a mettere insieme le forze necessarie e nelle pressanti richieste agli altri paesi, che vengono trattati, però, non come alleati ma come subfornitori, a costo zero, di mezzi e materiale umano. E’ per questa ragione che gli Usa cercano non solo di avere o mantenere i contingenti di altri paesi sui vari fronti, ma spingono perché l’impiego di questi non sia sottoposto a regole d’ingaggio restrittive.

La breve ripresa del “multilateralismo” da parte dell’amministrazione Bush si è già conclusa, rivelandosi come il tentativo di prendere tempo in attesa che passasse il pericolo delle elezioni di medio termine e come una necessità imposta dalla inaspettata sconfitta dell’offensiva israeliana contro il Libano. Né Bush, alla fine del suo secondo mandato, deve porsi la questione della sua rielezione, potendo così completare senza remore il raggiungimento dell’obiettivo della guerra permanente americana: destabilizzare l’area vicino e centro orientale per impedire che altri possano controllarne le risorse energetiche. Tra questi “altri” ci sono la Cina e l’Europa, i principali partner commerciali dell’Iran e degli altri paesi del Golfo Persico.
Unico aspetto positivo è l’alzarsi in Europa di alcune voci di dissenso, sebbene, anche in quest’occasione, la UE non costituisca ancora un vero soggetto politico autonomo. Zapatero ha rifiutato il comando spagnolo della missione Nato in Afghanistan, i magistrati tedeschi hanno chiesto l’arresto di tredici agenti della Cia coinvolti nel rapimento di un cittadino tedesco di origine libanese e, proprio ieri, Sarkozy, candidato alle presidenziali francesi, ha invitato i francesi e gli europei, sulla falsariga di Chirac, ad essere più autonomi dagli Usa.
E’ opportuno che l’Italia, una delle nazioni fondatrici della UE, aggiunga la propria voce a questo coro “multilaterale”. Ritengo, infatti, che il governo italiano, coerentemente con i propri indirizzi di politica internazionale, debba lavorare affinché la UE, come soggetto politico autonomo, intervenga per una soluzione diplomatica alla crisi iraniana e si pronunci chiaramente contro un attacco militare, che avrebbe conseguenze disastrose non solo per le popolazioni del Medio Oriente, ma anche per l’Italia e l’Europa.

*Capogruppo del Partito dei Comunisti Italiani alla Commissione Difesa della Camera