Per capire quello che sta accadendo dietro le quinte dello scontro tra l’Anp e il movimento islamico è necessario afferrare il significato del durissimo attacco rivolto due giorni fa ad Hamas dal presidente palestinese Abu Mazen. Accusando Hamas di aver provocato l’offensiva militare israeliana in atto contro Gaza, Abu Mazen ha scelto di dare il colpo di grazia alle possibilità di una riconciliazione con gli islamisti (al potere a Gaza da un anno e mezzo) e, di conseguenza, alla formulazione futura di una piattaforma programmatica di tutte le forze politiche palestinesi.
Mentre gli aerei israeliani martellavano la Striscia da nord a sud, provocando centinaia di morti e feriti, anche tra i civili, il presidente palestinese ha chiesto ad Hamas di fermare «il bagno di sangue». «Noi speriamo tutti di mettere fine a questa aggressione (israeliana) e di ripristinare la calma. Noi vogliamo proteggere Gaza e non vogliamo, come dicono altri, la sua totale distruzione», ha affermato in evidente riferimento alle dichiarazioni del premier di Hamas, Ismail Haniyeh, secondo cui il movimento islamico non alzerà bandiera bianca «neanche se tutta Gaza verrà distrutta».
Il passo fatto da Abu Mazen domenica al Cairo, lo stesso luogo dal quale la scorsa settimana il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni ha indirettamente annunciato l’offensiva aerea contro Gaza, allinea il presidente palestinese alla posizione espressa dall’Amministrazione americana uscente sul bombardamento israeliano. Indica che l’Anp (Ramallah) ha accettato l’interpretazione secondo la quale a frenare la soluzione del conflitto israelo-palestinese non sono più l’occupazione militare, il blocco asfissiante di Gaza, la colonizzazione della Cisgiordania, la confisca di terre e il muro, ma l’esistenza di Hamas e della sua ideologia.
Il successore di Yasser Arafat ha abbandonato la critica, legittima, del lancio di razzi Qassam contro i civili israeliani – che Hamas descrive come una risposta alla mancata revoca, prevista dall’accordo di cessate il fuoco, dell’embargo contro Gaza – per abbracciare la tesi di Tzipi Livni, «ideologa» dell’establishment, secondo la quale il conflitto in Medio Oriente non sarebbe causato dalla negazione di diritti, dagli abusi del più forte sul debole, dalla mancata applicazione del diritto internazionale, ma invece da uno scontro tra «radicali e moderati», tra amanti della pace ed estremisti.
I motivi di questa scelta di campo sono di difficile comprensione, se si tiene conto che il presidente palestinese non ha nulla in mano. Abu Mazen non ha ricevuto alcuna promessa dagli israeliani o dagli Stati Uniti sulla realizzazione delle aspirazioni del suo popolo alla libertà e all’indipendenza. Il vertice di Annapolis si è rivelato vuoto e senza prospettive, mentre il negoziato diretto con gli israeliani si è arenato subito sugli scogli storici: status di Gerusalemme e profughi. E non farà passi in avanti sino a quando – ha lasciato intendere Tzipi Livni in più d’una occasione – la leadership dell’Anp, con o senza Abu Mazen, non rinuncerà per sempre al diritto al ritorno per i profughi, sancito dalla risoluzione dell’Onu 194, e ai diritti palestinesi sulla zona araba (est) di Gerusalemme.
Un gioco al buio che non farà vincere al presidente palestinese la partita che sta giocando con Hamas. Con ogni probabilità Abu Mazen vede, alla fine dell’offensiva israeliana, un movimento islamico fortemente indebolito, incapace di dettare condizioni, costretto ad accettare l’estensione del suo mandato presidenziale (che scade il prossimo 8 gennaio) e, infine, obbligato a rinunciare al controllo di Gaza. Magari non trascura l’idea di riprendere il potere nella Striscia seguendo le colonne di carri armati israeliani che si preparano ad avanzare. Commette un errore macroscopico.
L’attacco israeliano forse decapiterà politicamente Hamas, ma sta già accrescendo la popolarità del movimento islamico in Cisgiordania, territorio che Abu Mazen già controlla con difficoltà, e nell’intero mondo arabo. Le manifestazioni imponenti che si stanno tenendo in diverse capitali della regione se da un lato esprimono solidarietà al popolo palestinese, dall’altro danno ossigeno proprio ad Hamas e alle organizzazioni sue alleate in Medio Oriente. L’offensiva israeliana a Gaza darà ad Hamas la stessa popolarità che l’offensiva israeliana in Libano del sud (2006) diede ad Hezbollah. Anche in quell’occasione non pochi leader arabi, in particolare l’egiziano Mubarak e il saudita Abdallah, inizialmente criticarono il movimento sciita ma furono poi costretti a fare marcia indietro di fronte al sostegno delle masse arabe alla resistenza libanese. Lo stesso accadrà, con ogni probabilità, anche nel caso di Hamas nei Territori occupati se terminerà subito la nuova offensiva israeliana. Abu Mazen rischia di ritrovarsi tra qualche settimana più isolato nel mondo arabo, davanti ad un Hamas più popolare di oggi in Cisgiordania.Per capire quello che sta accadendo dietro le quinte dello scontro tra l’Anp e il movimento islamico è necessario afferrare il significato del durissimo attacco rivolto due giorni fa ad Hamas dal presidente palestinese Abu Mazen. Accusando Hamas di aver provocato l’offensiva militare israeliana in atto contro Gaza, Abu Mazen ha scelto di dare il colpo di grazia alle possibilità di una riconciliazione con gli islamisti (al potere a Gaza da un anno e mezzo) e, di conseguenza, alla formulazione futura di una piattaforma programmatica di tutte le forze politiche palestinesi.
Mentre gli aerei israeliani martellavano la Striscia da nord a sud, provocando centinaia di morti e feriti, anche tra i civili, il presidente palestinese ha chiesto ad Hamas di fermare «il bagno di sangue». «Noi speriamo tutti di mettere fine a questa aggressione (israeliana) e di ripristinare la calma. Noi vogliamo proteggere Gaza e non vogliamo, come dicono altri, la sua totale distruzione», ha affermato in evidente riferimento alle dichiarazioni del premier di Hamas, Ismail Haniyeh, secondo cui il movimento islamico non alzerà bandiera bianca «neanche se tutta Gaza verrà distrutta».
Il passo fatto da Abu Mazen domenica al Cairo, lo stesso luogo dal quale la scorsa settimana il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni ha indirettamente annunciato l’offensiva aerea contro Gaza, allinea il presidente palestinese alla posizione espressa dall’Amministrazione americana uscente sul bombardamento israeliano. Indica che l’Anp (Ramallah) ha accettato l’interpretazione secondo la quale a frenare la soluzione del conflitto israelo-palestinese non sono più l’occupazione militare, il blocco asfissiante di Gaza, la colonizzazione della Cisgiordania, la confisca di terre e il muro, ma l’esistenza di Hamas e della sua ideologia.
Il successore di Yasser Arafat ha abbandonato la critica, legittima, del lancio di razzi Qassam contro i civili israeliani – che Hamas descrive come una risposta alla mancata revoca, prevista dall’accordo di cessate il fuoco, dell’embargo contro Gaza – per abbracciare la tesi di Tzipi Livni, «ideologa» dell’establishment, secondo la quale il conflitto in Medio Oriente non sarebbe causato dalla negazione di diritti, dagli abusi del più forte sul debole, dalla mancata applicazione del diritto internazionale, ma invece da uno scontro tra «radicali e moderati», tra amanti della pace ed estremisti.
I motivi di questa scelta di campo sono di difficile comprensione, se si tiene conto che il presidente palestinese non ha nulla in mano. Abu Mazen non ha ricevuto alcuna promessa dagli israeliani o dagli Stati Uniti sulla realizzazione delle aspirazioni del suo popolo alla libertà e all’indipendenza. Il vertice di Annapolis si è rivelato vuoto e senza prospettive, mentre il negoziato diretto con gli israeliani si è arenato subito sugli scogli storici: status di Gerusalemme e profughi. E non farà passi in avanti sino a quando – ha lasciato intendere Tzipi Livni in più d’una occasione – la leadership dell’Anp, con o senza Abu Mazen, non rinuncerà per sempre al diritto al ritorno per i profughi, sancito dalla risoluzione dell’Onu 194, e ai diritti palestinesi sulla zona araba (est) di Gerusalemme.
Un gioco al buio che non farà vincere al presidente palestinese la partita che sta giocando con Hamas. Con ogni probabilità Abu Mazen vede, alla fine dell’offensiva israeliana, un movimento islamico fortemente indebolito, incapace di dettare condizioni, costretto ad accettare l’estensione del suo mandato presidenziale (che scade il prossimo 8 gennaio) e, infine, obbligato a rinunciare al controllo di Gaza. Magari non trascura l’idea di riprendere il potere nella Striscia seguendo le colonne di carri armati israeliani che si preparano ad avanzare. Commette un errore macroscopico.
L’attacco israeliano forse decapiterà politicamente Hamas, ma sta già accrescendo la popolarità del movimento islamico in Cisgiordania, territorio che Abu Mazen già controlla con difficoltà, e nell’intero mondo arabo. Le manifestazioni imponenti che si stanno tenendo in diverse capitali della regione se da un lato esprimono solidarietà al popolo palestinese, dall’altro danno ossigeno proprio ad Hamas e alle organizzazioni sue alleate in Medio Oriente. L’offensiva israeliana a Gaza darà ad Hamas la stessa popolarità che l’offensiva israeliana in Libano del sud (2006) diede ad Hezbollah. Anche in quell’occasione non pochi leader arabi, in particolare l’egiziano Mubarak e il saudita Abdallah, inizialmente criticarono il movimento sciita ma furono poi costretti a fare marcia indietro di fronte al sostegno delle masse arabe alla resistenza libanese. Lo stesso accadrà, con ogni probabilità, anche nel caso di Hamas nei Territori occupati se terminerà subito la nuova offensiva israeliana. Abu Mazen rischia di ritrovarsi tra qualche settimana più isolato nel mondo arabo, davanti ad un Hamas più popolare di oggi in Cisgiordania.