«La legge che proibisce la tortura in discussione alla camera va approvata quanto prima, anche se non mi convincono affatto sia la cancellazione delle responsabilità ‘omissive’ o di controllo sia quella dell’assistenza alle vittime di un reato così grave prevista nella formulazione originaria». Mauro Palma, vicepresidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, registra con favore la sensibilità della maggioranza di centrosinistra su un tema così delicato in tutto il mondo. Intervenendo al convegno della Fondazione Basso di ieri a Roma («La tortura può accadere, può accadere sempre», Sala Minerva del senato) ha ricordato ancora una volta che nessun paese è esente da un abisso giuridico e morale ufficialmente sempre negato. «Negli Stati uniti, e ormai anche sulla stampa italiana, si affacciano due correnti giustificazioniste entrambe molto pericolose per le conseguenze devastanti per una detenzione dei cittadini sempre rispettosa dei diritti fondamentali e per un arretramento del dibattuto culturale che non facilita il controllo e la sanzione di questi fenomeni», spiega Palma. In America si confrontano due tesi: quella «democratica» e «pragmatica del giurista Alan Dershowitz («Why Terrorism Works», trad. it. «Terrorismo», Carocci, 2003) «secondo cui bisogna normare ciò che esiste, la tortura sicuramente esiste e dunque bisogna limitarla attraverso pratiche specifiche e puntuali di interrogatori coercitivi». L’altra, di scuola neo-con, afferma che «la guerra globale al terrorismo porta di per sé alle impalcature giuridiche internazionali uscite dalla seconda Guerra mondiale». Entrambe queste tesi, va da sé, legittimano forme di tortura come «waterboarding», privazione del sonno, alimentazione ad acqua e sale, minacce e ricatti di ogni tipo da parte delle forze di sicurezza.
Anche l’Europa però, puntualizza Palma «non è immune da queste suggestioni»: «Dopo l’11 settembre il Regno Unito ha sospeso l’applicazione dell’habeas corpus prevedendo la detenzione di sospetti terroristi a tempo indeterminato prima di formalizzare accuse precise davanti a un giudice». La norma è stata bocciata nel 2004 dalla camera dei Lord e oggi la detenzione «non comunicata» è ammessa fino a 28 giorni. «In tutta Europa c’è una tendenza ad ampliare il lasso di tempo tra l’arresto e la presentazione di accuse davanti al giudice, in Spagna ad esempio si può arrivare fino a 13 giorni. Ma le conseguenze di queste vere e proprie detenzioni incommunicados sono devastanti soprattutto per il personale di polizia, che assume come valore operativo e culturale l’idea che il controllo giudiziario sia un fardello per le indagini». «Il caso Abu Omar – prosegue Palma – dimostra che almeno in Italia invece la magistratura riesce a intervenire su questioni così delicate ma è evidente ormai che il problema delle rendition è ben lontano da una soluzione». Molti stati europei infatti hanno scelto un sistema di accordi bilaterali di consegna di prigionieri – per esempio con Giordania e Libia – che non hanno alcun valore giuridico, si limitano a scrivere nero su bianco: «Ti consegno la persona Y con la garanzia che non la torturerai». Ponzio Pilato impallidirebbe: la detenzione illimitata e il lavoro sporco proibiti in Europa si fanno fare agli altri lavandosene le mani.
Palma sottolinea del resto il costante «allargamento di luoghi di privazione della libertà lontani da occhi indiscreti come stanzette di aeroporti e stazioni ferroviarie, o in basi militari, che rendono sempre più difficile un controllo reale di quanto vi avviene». Anche il finale non è esattamente ottimista: come fare per garantire uno sguardo vigile ed efficace? «Al di là degli strumenti giuridici e sanzionatori se le autorità politiche non pongono al centro della propria azione una dimensione etica anche il richiamo degli organi internazionali serve a poco». Sta dunque soprattutto ai cittadini incalzare i governanti e all’informazione indagarne le scelte.