AAA, fittasi baracche negli slum di Nairobi

Fare a piedi la strada che separa Korogocho dallo stadio Kazarani, dove si sta svolgendo il primo social forum mondiale in Africa, è istruttivo: prima di tutto si scopre che lo slum dista solo quattro km dalla sede del forum, anche se tutti in salita. In secondo luogo si possono incontrare le persone che vanno e vengono dal centro, e che magari si sono spinte fino allo stadio, per partecipare o almeno dare un’occhiata alle decine di stand e alle centinaia di seminari che vanno avanti da quattro giorni. Ci sono un signore con le scarpe laccate, un gruppo di ragazzini che giocano a far rotolare i copertoni, una donna velata, un’altra vestita di stracci, un anziano con la barba curata, un diciassettenne che ascolta musica con le cuffie, parla un buon inglese ed è appena tornato dal forum.
Perché per quanto baraccopoli come quelle di Korogocho o di Kibera, rispettivamente la seconda e la prima di Nairobi, siano i posti più poveri, marginalizzati e disumani della città, a viverci sono soprattutto kenyani, cittadini che lavorano e pagano le tasse. Si calcola che il 65% della popolazione viva in uno slum. Ovviamente, appena la situazione economica lo consente chiunque scappa da qui. Nelle baracche in lamiera e nelle poche case costruite in mattoni non ci sono servizi igienici, non c’e acqua corrente, manca la corrente elettrica anche se poco lontano c’è una piccola centrale e si possono vedere gli elettrodotti che portano l’elettricità chissà dove.
Il fatto è che Korogocho – il cui nome nella lingua degli Agikuyu significa «immondizia» – è nata intorno al 1950 ma è ancora considerata dal governo kenyano un insediamento abusivo, che sorge su un terreno demaniale: dunque non esiste alcun obbligo per lo stato a fornire servizi, compresi ospedali e scuole. Tutti gli istituti scolastici che ci sono nello slum, come la St. John’s School dei comboniani, non rilasciano titoli riconosciuti dallo stato. Eppure, anche se può sembrare incredibile, la gente che vive qui paga l’affitto e non è proprietaria neanche del pezzo di lamiera che ha sopra la testa. A costruire le baracche, infatti, sono dei privati, perlopiù proprietari terrieri che gestiscono questo business. L’offerta è finanche diversificata: le catapecchie sono la maggior parte, ma qua e là c’è anche qualche palazzetto fatto in mattoni. Una baracca costa tra i 300 e i 500 scellini al mese, un appartamento 1.500. Bisogna considerare che non è frequente, per chi svolge un lavoro umile, guadagnare 500 scellini al mese, cioè cinque euro, e che c’è molta gente che guadagna invece meno di un dollaro. Anche per questo motivo nello slum si vende di tutto: corpi, droga, armi, oltre ai più ordinari oggetti di consumo. Tutta merce esposta nei banchi allestiti proprio di fronte alla porta di casa, intorno ai quali si incontrano capre e galline che beccano la terra – l’asfalto non c’è – impastata con centinaia di buste di plastica che galleggiano anche dentro al fiumiciattolo, intorno al quale ci sono gli stessi meravigliosi alberi che si possono ammirare al Safari Park, uno degli alberghi più esclusivi di Nairobi, anch’esso distante pochi chilometri da Korogocho.
Quello della plastica è un problema serio. L’unica conseguenza positiva è che questi appezzamenti sono talmente inquinati che difficilmente il governo troverà qualcuno a cui venderli. Ciò non difende però gli abitanti degli slum – a Nairobi ce ne sono più di 200 – dalle demolizioni. Solo in questi giorni di forum ce ne sono state tre, anche se nessuno allo stadio Kazarani se n’è accorto. A raccontarlo è Daniele Moschetti, il padre comboniano che ha raccolto il testimone di Alex Zanotelli, che ha vissuto per ben 12 anni a Korogocho. L’occasione è stata uno dei tredici seminari disseminati negli slum per cercare di decentrare un po’ i lavori del forum. A Korogocho, in una piccola arena che si trova nel centro culturale dei comboniani, si parlava di diritto alla casa e alla terra: ospiti d’onore, oltre a Zanotelli che ormai vive a Napoli da quattro anni ma che viene accolto dagli abitanti della baraccopoli come una specie di capofamiglia emigrato all’estero, gli attivisti sudamericani della campagna No evictions, «Basta sfratti», e il teologo della liberazione brasiliano Marcello Barros. «Qui in Kenya il diritto alla casa e alla terra è un problema essenziale: l’80% delle persone vive nel 5% della terra, in una situazione insostenibile», dice Moschetti. Barros ricorda che quando un dominatore vuole conquistare un paese, la prima cosa che fa è prendere la terra, come hanno fatto i colonialisti in America Latina e in Africa.
La storia degli slum di Nairobi è proprio questa: quando gli inglesi fondarono la città, prima come deposito della ferrovia da Mombasa a Kampala, poi come sede del protettorato, i neri non potevano entrare nel centro. E così nacquero i primi slum, che sono diventati la risposta abitativa, dopo l’indipendenza, dei lavoratori che scappavano dalle campagne – distrutte dalle politiche di aggiustamento strutturale – per cercare lavoro in città. Oggi negli slum arrivano anche i migranti, ad esempio da Tanzania e Uganda, o rifugiati politici come i somali.
Alla fine del seminario padre Zanotelli celebra una cerimonia di benedizione della terra in cui coinvolge i ragazzini dello slum, alcuni dei quali avevano passato tutto il tempo dell’incontro a sniffare glup, colla. Tutti, mano nella mano, intonano «We shall overcome». L’azione dei comboniani è uno dei fattori che hanno stimolato una qualche organizzazione politica nelle baraccopoli. Veri e propri movimenti sociali non esistono, ma nel 2004 la protesta degli abitanti ha fermato l’espulsione di 300 mila persone. Oggi la rete Kutoka chiede prima di tutto che sia concesso maggiore spazio vitale agli abitanti e che la terra diventi comunitaria. Ma ci sono anche gli adolescenti, che barcamenandosi tra comboniani, ong e una vera volontà di autonomia, si muovono: al Social forum sono stati loro a mettere in piedi la protesta contro il prezzo di ingresso e il costo del cibo.