«Non c’è niente da festeggiare”, così Repubblica parla del primo maggio nella pagina milanese in cui dedica un trafiletto al primo maggio e alla Mayday Parade. Noi invece diciamo che nell’esplosione creativa della Mayday sono visibili modi nuovi di produrre conflitto. Fino a qualche decennio fa era precario colui che era escluso dal sistema fordista, tutto fabbrica e ammortizzatori sociali. Era una condizione tipicamente meridionale, fortemente contigua e intercambiabile con la disoccupazione. La precarietà di cui si parla e che si vive oggi è invece interna al tessuto produttivo ed è un prodotto tipico del Nord dell’Italia. Attenzione: non vogliamo sostenere che la prima non esista più, ma che la nuova precarietà è profondamente radicata nel sistema produttivo, ne costituisce corpo e mente e quindi è potenzialmente esplosiva. Una precarietà altrettanto nuova ma che si manifesta anche nei settori tradizionali, come fabbrica e servizi, è quella dei migranti. Quanti sono i precari e i migranti? Milioni, non è facile quantificarli. Quello che è certo è che la precarietà del nuovo millennio agisce così profondamente e diffusamente da tenere in scacco il mondo del lavoro e dominare una società che culturalmente ha introiettato i valori fondanti dell’impresa: individualizzazione, profitto, competizione.
Riteniamo da tempo che la precarietà sia insieme ricatto e consenso. Dei due termini del problema, tuttavia, la novità è il consenso. Da sempre il capitale esercita ricatto sul resto della società in modo cangiante, ma lo scarto oggi è proprio rappresentato dal consenso. Trent’anni di arretramento nei diritti e nel potere di acquisto di lavoratori e famiglie sono passati senza che si creasse il finimondo. Ciò non si giustifica con la sola retorica del sindacato venduto, dei politici corrotti e del popolo bue. Il problema è più ampio, il problema è il consenso: le imprese oltre a ricattare, tagliare e sfruttare sono capaci di illudere, affascinare e creare aspettative.
Questo punto è essenziale. Se vogliamo darci un nuovo ritmo, se ci assumiamo il compito di rinnovare i modi e gli obiettivi del nostro agire dobbiamo capire la società che ci circonda. Ragionare sul “consenso” significa – in settori come moda, comunicazione, telefonia, servizi, informazione, ma anche trasporti e logistica, settori determinanti nelle aree metropolitane e strategici per le imprese – pensare alla mentalità che lega l’impresa al lavoratore, alle aspettative di quest’ultimo, alle regole d’ingaggio che possono tramutare questo rapporto in conflitto. Nei rapporti di lavoro è cambiato tutto. Tra padrone (quando c’è o lo si riconosce come tale) e dipendente, tra capo e sottoposto ci si da del tu, la gestione dell’azienda è orizzontale, sembra di stare in una grande famiglia, quasi quasi sulla stessa barca… Questo è frutto di politiche di marketing che mettono in gioco meccanismi di fidelizzazione del lavoratore nei confronti dell’impresa. Aumentano profitti e produttività, diminuisce il conflitto. Il rapporto padrone e lavoratore diventa meno ideologico ma più viscerale, e la sua rottura genera risentimento e smarrimento. Insomma, tra i lavoratori c’è la sensazione diffusa che impegnandosi e insistendo si riuscirà a migliorare le proprie condizioni individuali – quasi mai collettive. Non si tratta di porzioni marginali del corpo sociale e, attenzione, non si tratta neanche di arrendevolezza. È una mentalità diversa, che ci piaccia o no, da cui si deve partire.
Nell’esperienza dei Punti San Precario, sportelli di nuova generazione, poco attenti alla causa legale ma più attratti dall’agitazione dentro e fuori i luoghi di lavoro, tutto questo si è delineato con chiarezza. Nel momento in cui un lavoratore si sente tradito dall’azienda viene pervaso da una rabbia che lo porta a chiedere più soldi possibile e a cercare di abbattere l’immagine dell’impresa. L’abbiamo chiamato “Cash & Crash”: per organizzare conflitto bisogna penetrare nei luoghi di lavoro per intaccare i profitti dell’azienda ottenendo soldi (il cash) e sminuirne l’immagine (il crash). L’esperienza che ne è seguita, modellata dalla collaborazione a molti conflitti e vertenze, è servita a diffondere il conflitto, allargarlo e renderlo adatto a insinuarsi nel luoghi di lavoro, comunicare con i lavoratori precarizzati e quindi ricattabili e cercare di tutelarli. Ovviamente ciò non funziona ovunque, e il sindacato ha difficoltà a rapportarsi con questa versione fluida del conflitto. È cospirazione precaria e parte dalla convinzione che la precarietà non si combatta semplicemente proponendo rigidità nel rapporto di lavoro, che non si traduce automaticamente nell’affermazione di diritti, ma “garantendone” la fluidità, per esempio incrementando la possibilità di rifiutare un lavoro peggiore. Ciò significa garantire a ognuno di noi la possibilità di scelta, unica strada per ridare fiato ai conflitti. Tradotto: serve un welfare che pesi in positivo sul bilancio che ognuno fa tra vantaggi e svantaggi quando deve decidere se andare contro all’azienda o meno, diminuendo la forza del ricatto che il lavoratore subisce. Per questo bisogna legare i diritti alla persona e non al contratto. Certo, non tutto il mondo del lavoro segue queste regole, ma con la crescita del peso dei precari è necessario dare uno sbocco ad una nuova cultura del conflitto. Chi confonde questa prospettiva con una forma fuori tempo di assistenzialismo dimentica che, nel nord del paese e in buona parte delle aree metropolitane la precarietà è a tempo “indeterminato” proprio perché i dati della disoccupazione sono bassissimi; ovvero si lavora sempre per prendere due lire precarie. L’esperienza del Punto San Precario lo dimostra: saper mostrare di poter compromette l’immagine di un’azienda significa esercitare efficacemente conflitto. L’importanza dell’attenzione maydayana alla “alleanza” fra precari e migranti parte proprio da queste considerazioni. La precarietà agisce diversamente nel corpo sociale frammentandolo, ogni parte ne subisce aspetti diversi. Bisogna agire sulla specificità della condizione, alimentare il protagonismo dei soggetti e fomentare i conflitti in quei settori sociali traditi, dimenticati dalla retorica dei diritti e delle tutele che ogni giorno diventano più sbiaditi. La regolarizzazione dei migranti e l’abolizione dei cpt, la richiesta di un reddito e l’affermazione dei diritti, scritti in calce sul poster della mayday (vedi a pagina 24 di questo giornale) non vogliono essere una sommatoria di rivendicazioni, contentino per i soggetti che la animano, meticci e nativi, ma rappresentano la consapevolezza che per opporsi alla precarizzazione è necessario ripensare a un’offensiva dentro e fuori i luoghi di lavoro, attraverso il sociale che ponga al centro della sua attenzione “la cultura del conflitto” e l’agitazione culturale come basi della propria azione e comunicazione
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