Siamo un gruppo di detenuti del carcere di Mammagialla, quest’appello alla società civile non ha l’ambizione d’essere rappresentativo dell’intera popolazione rinchiusa dietro queste mura. Il popolo dei reclusi è figlio di un Dio minore. Alla privazione della libertà fisica, alla riduzione brutale delle possibilità di movimento, al “disciplinamento” dei corpi, al controllo dei sentimenti e delle emozioni, alla devastazione degli affetti, alla privazione d’alcune funzioni essenziali della vita, alla perdita della propria individualità, s’aggiunge la degradazione civile e politica. Chi si ritrova recluso smette di contare, viene solo contato più volte al giorno. Negli ultimi decenni la società ha subito un deterioramento profondo ed il carcere n’è divenuto il luogo di raccolta, il deposito, la discarica. Grazie alle mura delle prigioni la società invisibilizza i suoi problemi. Sottraendoli alla vista allevia la propria coscienza. E’ vero, nelle prigioni dell’Occidente moderno ed opulento, i detenuti non sperimentano più fame e stenti, al contrario si deprimono, marciscono, si svuotano, s’immiseriscono, si suicidano. Fanno della vita stessa una malattia. L’istituzione penitenziaria non uccide quasi mai più di propria mano, lascia morire d’incuria, di malasanità, d’indifferenza. Ed i morti sono molti. Qui a Viterbo almeno lo stesso numero dei detenuti deceduti nel carcere di Sulmona, su cui sono costantemente accesi i riflettori dei media. L’ultimo, lunedì 3 ottobre. Si chiamava Gerardo Rubino, di settanta anni, nato ad Angri, in provincia di Salerno, nel febbraio del 1935. Soffriva di varie patologie, di cui la più grave era un avanzato stato di necrosi delle coronarie. Era a sette mesi dal “fine pena”, e per questo aveva ripetutamente richiesto l’accesso alle misure alternative, sistematicamente rifiutate dal magistrato di sorveglianza. In rotta con la famiglia, grazie alla sua pensione aveva trovato un ospizio disposto ad accoglierlo. Ha finalmente trovato pace nella cella frigorifera dell’ospedale Bel Colle, dove pare il suo corpo giace ancora dimenticato. Nessuno è venuto a riprenderselo. Molti di noi se lo ricordano passeggiare solitario, pallido, fragile, schivo. Scontava la sua pena in silenzio, quasi nascondendosi, ed ammutolito se n’è andato nell’indifferenza generale. Rubino non era più un uomo ma un corpo, un corpo abbandonato, considerato inutile quando si trascinava da vivo, figuriamoci ora che è solo un cadavere. Che le prigioni fossero una purulenta sentina della società, è stato scritto, detto e ribadito fino alla nausea. Un’ovvietà che suona come una vuota retorica dell’indignazione, non più udibile da chi, come noi, è costretto a trascorrervi periodi sempre più lunghi della propria esistenza.
Una di quelle dotte citazioni letterarie, fin troppo abusate, ricorda come il livello di civiltà di un paese si misuri dalle condizioni delle sue carceri. Forse sarebbe bene aggiungere che si valuta anche dal numero delle carceri e dei carcerati ma anche il livello di civiltà di una città si riflette nella realtà del carcere che vi risiede. Attorno alla casa circondariale di Mammagialla non s’innalzano solo alte mura di cinta, ma anche una spessa barriera d’indifferenza ancora più invalicabile delle prime. Mammagialla è uno spazio rimosso dal tessuto cittadino, un non-luogo, un buco nero, una cittadella fantasma, uno spettrale castello che sorge nell’immediata periferia, come le discariche che s’incontrano appena fuori città. Alligna nei suoi confronti un’indifferenza che s’alimenta d’antichi pregiudizi e nuove ansie sicuritarie. Seicentocinquanta invisibili risiedono dietro la sua cinta. Settimanalmente ricevono la visita di una processione di parenti, madri tenaci, mogli e fidanzate addolorate, bambini chiassosi e colorati. Viterbo nemmeno se n’accorge, salvo i suoi commercianti. Le autorità: il sindaco, il prefetto, il questore, il procuratore e compagnia bella, non gradiscono la presenza di carcerati tra i piedi. Dal tessuto civile della città solo due associazioni hanno trovato il coraggio e l’interesse d’intervenire al suo interno. Non esistono cooperative sociali in grado di offrire seri posti di lavoro che consentono di accedere alle misure alternative, mentre gli enti economico-produttivi si mostrano totalmente impermeabili alle richieste d’impiego. Il sindaco Gabbianelli ed il vescovo Chiarini, si servono di Mammagialla unicamente come vetrina per ipocrite cerimonie autocelebrative. L’amministrazione comunale si distingue per la sua programmatica latitanza, quando in realtà dovrebbe svolgere un ruolo preminente nell’organizzare ed incentivare una politica d’ingresso e d’intreccio della comunità esterna col carcere. Quest’istituto è tristemente relegato a terreno di competizione “compassionevole” tra varie organizzazioni religiose o parareligiose, che si contendono la conquista delle pecorelle smarrite, elargendo anacronistici catechismi, vite dei santi e volumi creazionisti sul “disegno intelligente”, offerti a reclusi che nella loro vita non hanno mai sentito parlare della teoria evoluzionista di Darwin. I detenuti, o meglio gli utenti, come adesso ci chiamano nelle conferenze degli operatori del settore, quasi che il carcere fosse un servizio offerto ad un pubblico che lo sceglie volontariamente, restano un puro soggetto passivo, un’anima da indottrinare. Esseri in eterna attesa di qualcosa: la posta, un colloquio, un trasferimento, un permesso, l’indulto, l’amnistia o la madonna pellegrina. Così i reclusi entrano in una spirale regressiva di deresponsabilizzazione, d’infantilizzazione, attraverso un perverso quanto ottuso sistema di punizioni e ricompense, un dispositivo disciplinare e paternalistico che istupidisce l’intelligenza e avvilisce le coscienze. Al clima repressivo generale, Mammagialla vede sommarsi un problema ambientale, una politica locale, un’atmosfera culturale che ne fa una struttura eminentemente custodiale, altrimenti detta: una “prigione punitiva” nella quale vige il principio della pena incomprimibile. Protagonista assoluto di questa gestione restrittiva è il magistrato di sorveglianza. Regna sovrano da quasi un quindicennio in barba a tutti i principi di rotazione delle funzioni, attuando un’impunita strategia elusiva ed omissiva delle norme e dello spirito contenuti nella già discutibile legge Gozzini, attraverso il ricorso ad una giurisprudenza sfavorevole, a veri e propri abusi, a castronerie giuridiche, ritardi stratosferici e mancate risposte. La concezione ricostruttiva della sanzione è scientemente sabotata a vantaggio di una visione puramente retributiva. Il numero dei permessi d’uscita è derisorio e le rare volte in cui questi vengono concessi, ciò avviene sempre sul finire della pena e non agli inizi, invalidando così ogni possibile progressione del percorso trattamentale, impedendo l’accesso al lavoro esterno, alla semilibertà, alla condizionale, all’affidamento. A tutti diciamo: ogni muro ha due lati. Per questo le prima sbarre da segare sono quelle della propria coscienza.
dal carcere di Viterbo